Il Gip di Milano trasferisce al commissario Gnudi 1,2 miliardi di euro sequestrati alla famiglia. E i lavori di risanamento possono ripartire. Rigettata la richiesta di incostituzionalità fatta da Adriano, fratello di Emilio

All’Ilva arrivano i nostri. O meglio, arrivano i soldi sequestrati a Emilio e Adriano Riva, per riprendere le bonifiche del più grande stabilimento siderurgico d'Europa.

Con una decisione non del tutto scontata, il gip del tribunale di Milano Fabrizio D’Arcangelo ha infatti permesso il trasferimento del tesoro da 1,2 miliardi di euro, custodito in gran parte nelle casse delle banche svizzere Ubs e Aletti (gruppo Banco Popolare) ma intestato a otto trust domiciliati sull’isola di Jersey, paradiso fiscale sotto la sovranità della corona inglese.

Il gip ha rigettato «per manifesta infodatezza» le eccezioni di incostituzionalità mosse nell'udienza del 17 ottobre dai difensori di Adriano Riva – fratello dell'industriale Emilio scomparso qualche mese fa - e ha proceduto al trasferimento delle somme. I soldi torneranno direttamente all’Ilva in forza di un decreto legislativo ad hoc inizialmente emanato nel giugno del 2013, e poi rivisto nel febbraio di quest’anno per iniziativa del governo di Matteo Renzi.

Una volta nella disponibilità del commissario straordinario Piero Gnudi, che aveva chiesto il trasferimento, i denari serviranno per un aumento di capitale vincolato all'adeguamento dello stabilimento pugliese alle prescrizioni del piano ambientale di luglio, che ha ampliato il range di interventi già previsti dall'Autorizzazione integrata ambientale (Aia), ovvero le norme da seguire per evitare che l'acciaieria continui a inquinare.



Prima si bonifica, prima la società recupererà tutta la sua pienezza operativa. Le azioni derivanti dall'aumento di capitale saranno intestate al Fondo unico giustizia e, per esso, a Equitalia Giustizia. La cura prescritta dal piano ambientale supera gli 1,8 miliardi di euro: 250 milioni sono già stati investiti, i 1,2 miliardi trasferiti oggi ne copriranno gran parte e la parte mancante dovrebbe essere a carico dei nuovi acquirenti, che attendono l’arrivo dei quattrini per finalizzare le offerte al commissario. I nomi che circolano sono il tandem ArcelorMittal Marcegaglia, in pista da più da tempo, l’indiana Jindal e il gruppo cremonese Arvedi, che sarebbe entrato nella partita per ultimo, anch’esso in compagnia di investitori esteri - secondo quanto aveva ventilato “Il Sole 24 Ore” - o forse della Cassa Depositi e Prestiti. Ma potrebbero emergere anche altri candidati.

La decisione del gip D’arcangelo chiude un percorso intricato, che parte nel maggio del 2013, quando lo stesso giudice aveva disposto il sequestro su richiesta dei pubblici ministeri Stefano Civardi e Mauro Clerici, nel pieno di un’indagine fiscale nel confronti dei fratelli Riva. I quali si erano messi nei guai con le loro stesse mani, si potrebbe dire. I due, infatti, nel 2009 avevano deciso di scudare i denari custoditi nei trust, aderendo al salvacondotto fiscale ideato dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti per far rientrare in Italia i risparmi degli italiani detenuti all’estero.

Occasione ghiotta anche per la coppia di industriali, che non avevano però eseguito la manovra di sdoganamento alla perfezione: secondo le indagini, chi aveva chiesto il rimpatrio (Emilio Riva) era soggetto diverso da chi aveva costituito i trust (Adriano, ovvero il cosiddetto settlor) e quindi il primo non poteva attivare lo scudo.

Nell’inchiesta, con l’accusa di riciclaggio, erano finiti anche Franco Pozzi ed Emilio Gnech, professionisti dello studio Biscozzi Nobili che da molti anni è vicino agli industriali. Per i due fratelli Riva le accuse erano quelle di truffa ai danni dello Stato e intestazione fittizia di beni. I soldi, come salmoni che risalgono la corrente, erano finiti all’estero attraverso alcune operazioni condotte tra Ilva, la sua capogruppo Riva Fire e società basate in Olanda e Lussemburgo, terminali di questo processo che aveva permesso di drenare risorse dalle entità italiane in frode alla legge, impoverendole fino alla situazione attuale.

L'inchiesta, com’è noto, si è allargata con il tempo e per gemmazione ne ha prodotte altre, per frode fiscale e per truffa ai danni dello Stato in relazione ai fondi della legge Ossola, con il procedimento che si è concluso in primo grado con la condanna per Fabio Riva a 6 anni e mezzo di carcere. Il manager, figlio di Emilio, è ancora in stato di fermo a Londra dopo la sua latitanza, e dal prossimo 3 novembre è prevista l’udienza per la sua estradizione in Italia.