La sentenza mette a rischio anche il pagamento della “multa” da quasi 390 milioni decisa dalla giustizia tributaria. Un duro colpo per la lotta ai gruppi italiani domiciliati in Lussemburgo
Assolti perché il fatto non sussiste. Per
Domenico Dolce e Stefano Gabbana arriva un verdetto positivo che cancella in un solo colpo sette anni di indagini e processi in relazione alla cessione, nel 2004, dei loro marchi a una società lussemburghese, la Gado.
Il dispositivo letto dal presidente Alfredo Teresi è esploso con la forza di una cannonata a lunga gittata. Perché libera dal giogo di una condanna penale il più famoso sodalizio mondiale nel campo della moda e perché la lotta all’
elusione fiscale si arricchirà di una sentenza destinata a fare storia, non nel senso che avrebbero sperato Guardia di Finanza, Agenzia delle Entrate e Procura di Milano.
Ora la palla passa ai due processi tributati ancora pendenti in Cassazione: nei precedenti gradi i due stilisti avevano visto soccombere le loro pretese, e chissà che questa sentenza non aiuti loro a ribaltare quei verdetti.
In Corte d’Appello i due erano stati condannati a un anno e sei mesi per il reato di omessa dichiarazione dei redditi ai fini Ires e Iva per il periodo 2005-2006, l’ultimo rimasto in piedi dopo la prescrizione dell’annualità 2004-2005.
Con i due stilisti sono stati assolti anche il commercialista
Luciano Patelli, partner dello studio Pirola Pennuto Zei e architetto della ristrutturazione aziendale che aveva portato i marchi fuori dall’Italia, e i dirigenti Cristiana Ruella, Giuseppe Minoni. Rinvio in Appello solo per Alfonso Dolce – fratello di Domenico – che era il legale rappresentante di Gado, ma il reato contestato si prescriverà in una settimana e quindi, di fatto, è salvo. Anche l’Agenzia delle Entrate è uscita sconfitta da questo procedimento: il tribunale ha infatti annullato la provvisionale da 500 mila euro per danno d'immagine che era stata riconosciuta nei due gradi di giudizio precedenti.
LE TAPPE GIUDIZIARIEL’udienza di oggi, si diceva, chiude un percorso durato più di sette anni e iniziato con il primo verbale di costatazione del Nucleo di polizia tributaria di Milano del settembre 2007 a carico del gruppo della moda, cui ne era seguito uno del 2009 verso i due stilisti. I due atti da cui era partita l’indagine penale condotta dai pm milanesi Laura Pedio e Gaetano Ruta, in relazione alla cessione dei marchi “Dolce & Gabbana” e “D&G” alla Gado, una società lussemburghese sempre del gruppo Dolce & Gabbana infine dichiarata “esterovestita”. Ma nell’aprile 2011 arrivava un capovolgimento di fronte: a chiusura delle indagini il giudice dell'udienza preliminare Simone Luerti proscioglieva gli imputati dall’accusa di truffa ai danni dello stato e dichiarazione infedele. I pm non si arrendevano e presentavano ricorso per Cassazione. La Suprema corte, che oggi ha decretato la definitiva innocenza degli imputati, allora lo accoglieva, chiedendo di procedere con le nuove imputazioni di omessa e infedele dichiarazione oggi cadute.
Nel maggio del 2013 arrivava la prima condanna per tutti gli imputati italiani (assolta solo la cittadina lussemburghese Noella Antoine). Durante l’arringa difensiva l’avvocato Massimo Dinoia citava addirittura passaggi biblici, ma invano: l’assoluzione, almeno in terra, non c’era. Nel luglio del2013 lo scontro usciva fuori dalle aule di tribunale: i due stilisti decidevano una clamorosa serrata di tre giorni dei negozi milanesi in risposta alle parole dell’assessore al Commercio Franco D'Alfonso, che avrebbe negato piazza del Duomo ai due se l’avessero richiesta per una sfilata. In un comunicato pubblicato su alcuni giornali i due si scagliavano contro le «continue diffamazioni e ingiurie» di cui erano vittima. A marzo del 2014, in Corte d’Appello, di nuovo si assisteva a un colpo di scena: il procuratore generale Gaetano Santamaria Amato, anch’esso vincitore morale in questa complessa vicenda, dopo una requisitoria che nei toni superava quella delle difese, chiedeva l’assoluzione per tutti perché il fatto non sussiste, parlando di una sentenza di primo grado che «contrasta col buon senso giuridico». Ma il collegio presieduto da Laura Cairati lo smentiva, confermando le condanne per tutti.
I MARCHI E L’ESTEROVESTIZIONEPerché questa sentenza è importante? Perché contiene in sé situazioni riconducibili a moltissime altre realtà imprenditoriali italiane, che hanno utilizzato il Lussemburgo (o altri paradisi fiscali) per ridisegnare il proprio gruppo. Conviene quindi ripercorrerla brevemente per analizzarla meglio.
Nel marzo del 2004 il gruppo Dolce & Gabbana decise di costituire due società in Lussemburgo – la Dolce & Gabbana Luxembourg e la Gado, sua controllata – per poi cedere a quest’ultima i più importanti marchi di cui si fregiano le loro creazioni per 360 milioni di euro. In sostanza veniva demandata a Gado la gestione e tutela dei marchi, fino a quel momento svolta in Italia, a fronte del pagamento di royalties dai licenziatari, le società del gruppo in primis. Il cambio era favorevole per le tasche dei due stilisti, che in Italia sulle royalties pagavano il 45 per cento di Irpef, essendo di proprietà di persone fisiche: una volta nel Granducato l’incidenza fiscale sarebbe crollata al 4 per cento, grazie a un accordo con l’erario locale.
L’operazione era stata contestata dalla Guardia di Finanza e dall’Agenzia delle Entrate sotto due profili: il primo riguardava l’effettiva operatività di Gado, sospettata di essere solo una cosiddetta estero-vestizione, ovvero un’azienda solo fittiziamente estera ma in realtà italiana perché guidata e amministrata dall’Italia; il secondo atteneva al prezzo di vendita troppo basso. Per l’Agenzia il valore dei marchi era di 1,19 miliardi di euro circa, e su quello andavano calcolate le tasse sulla plusvalenza. C’è da dire che in Commissione tributaria il valore dei brand è stato ricalcolato in 730 milioni di euro, e su quell’ammontare è stato richiesto il pagamento ai due di 343 milioni di euro tra tasse, sanzioni e interessi di mora. I due giudizi tributari accesi sono ancora pendenti in Cassazione.
Per la difesa, il gruppo Dolce e Gabbana aveva tutti i diritti di posizionare Gado in
Lussemburgo, in virtù della libertà di stabilimento garantita dall’Unione europea. Il piccolo stato era stato scelto perché era una piazza finanziaria di primaria importanza, e in vista di una quotazione in Borsa – mai avvenuta – la società avrebbe avuto una migliore visibilità da parte delle banche e dei fondi internazionali. I due stilisti, poi, sarebbero stati «in buona fede», in quanto non esperti di questioni fiscali e societarie, e poi convinti di operare legittimamente.
La Corte d’Appello, con una sentenza molto chiara, oltre a negare la buona fede degli stilisti (le cifre in gioco erano troppo consistenti per potersene disinteressare) aveva invece rintracciato molti indici che convergevano verso la esterovestizione, come la residenza fiscale di quasi tutti i consiglieri in Italia (Ruella, Alfonso Dolce). O la mancanza di dipendenti alla costituzione: solo dopo mesi un dipendente italiano era stato distaccato in loco, ma le verifiche avevano appurato che non aveva nessun grado di indipendenza dalle altre società del gruppo e, anzi, molte email sequestrate avevano mostrato come gli ordini venissero impartiti dall’Italia. La stessa società di domiciliazione in Lussemburgo, la Alter Domus, che fornisce la “residenza” a migliaia di società che si posizionano nel piccolo stato e che avrebbe dovuto curare servizi primari come l’amministrazione, eseguiva solo compiti su delega della società cliente italiana. O, infine, il brusco rientro in Italia della società una volta arrivata la verifica fiscale del 2007.
Gado era in realtà italiana e avrebbe dovuto pagare le tasse all’Erario nostrano: anche l’obiezione che la capogruppo D&G srl era italiana e quando Gado avesse pagato i dividendi sarebbero risaliti verso l’imponibile della holding si era rivelata debole, perché la società negli anni della sua residenza estera non aveva mai staccato cedole, mantenendo gli utili in Lussemburgo. Ma se per la Corte d’Appello si trattava di un classico caso di abuso del diritto, dal dispositivo della Cassazione il loro comportamento appare invece perfettamente lecito anche ai fini fiscali.
L’ARCHITETTO DELL’OPERAZIONEIl commercialista Luciano Patelli merita un approfondimento a parte. Il professionista, partner dello studio Pirola Pennuto Zei (il più importante d’Italia), è stato il consulente fiscale e l’artefice di questa ristrutturazione. Un ruolo ritenuto talmente importante nella vicenda da essere sanzionato con una pena pari ai due stilisti. Secondo la Corte d’Appello «per le sue conoscenze tecniche nel settore e l’affermata professionalità che lo distingueva egli va considerato l’ideatore del progetto di evasione fiscale, prima predeterminato e poi realizzato. Non è quindi credibile, come da lui sostenuto, che egli fosse ignaro dell’inoperatività in Lussemburgo di Gado… Qualora il commercialista indichi la via da adottare, quale mezzo per celare le reali condizioni economiche dei clienti, si pone l’elemento obiettivo di incriminazione del concorso in quanto il contributo morale così configurato integra la sfera dell’illecito». Ma anche in questo la Cassazione è stata di parere diverso e probabilmente tutta la categoria tira un sospiro di sollievo.
IL NODO TRIBUTARIOResta da sciogliere il nodo tributario, ancora pendente in cassazione in due distinti filoni, uno per il valore dei marchi ceduti, e quindi per le tasse che avrebbero dovuto pagare gli stilisti sulle plusvalenze, e l’altro sulle imposte non versate in Italia da Gado. Secondo quanto risulta a “l’Espresso”, ai 343 dovuti per il ricalcolo del valore dei marchi vanno aggiunti circa 43 milioni di tasse contestate a Gado. Parte sono state già versate ma, ora, si attende ancora l’ultima parola.