Senza turn over si è guardato solo al risparmio, indebolendo il settore pubblico. Ma per il futuro delle generazioni a venire bisogna porsi il tema della sorte di quelle attuali

Cambia la demografia, e con la demografia cambiano gli assetti mondiali. E sorgono domande. In che relazione stanno fra loro l’inserimento nella nostra Carta fondamentale di un riferimento alle «future generazioni» e il coevo raggiungimento di uno dei punti più bassi della curva demografica italiana?

 

Senza sopravvalutare la circostanza, è consentito sottovalutare che nel recente incontro tra Giorgia Meloni ed Elon Musk uno dei due temi portanti sia stata l’esortazione di Musk agli italiani a fare più figli? I dati Istat dicono che la popolazione residente in Italia, al 1° gennaio 2023, è scesa a 58 milioni e 851 mila unità, 179 mila in meno sull’anno precedente. E che nel calo della popolazione incide fortemente una dinamica demografica sfavorevole che vede un eccesso dei decessi sulle nascite: nel 2022, i decessi sono stati 713 mila, le nascite 393 mila. È stato così toccato un nuovo minimo storico, con un saldo naturale, dunque, di -320 mila unità. Stiamo tornando ai livelli di densità di popolazione di vent’anni fa, sensibilmente distanti dal picco massimo del 2014, quando si raggiunse il livello record di 60.795.612 unità. E intanto l’India ha sorpassato la Cina nel primato mondiale di abitanti (1,4286 miliardi contro 1,4257). Introducendo e disegnando prospettive di nuovi equilibri mondiali.

 

In Italia non siamo solo di meno. Siamo anche più vecchi. Anche laddove è all’evidenza imprudente esserlo. Nella pubblica amministrazione, ad esempio, nel 2021 l’età media del personale con rapporto di lavoro stabile era di 50,7 anni (49,9 anni per gli uomini, 51,4 per le donne). Nel 2001, era di 44,2 anni. L’età media di entrata è passata in vent’anni da 29,3 a 34,3 anni. I nostri dipendenti pubblici sono tra i più anziani in Europa (13,7%, contro il 19,7% della Francia, il 16,9% della Spagna e il 16,4% del Regno Unito: dati 2022). Nel 2022, il totale del comparto pubblico quotava 3.249.000 unità, ovvero 260.000 in meno rispetto a vent’anni prima. E fra il 2021 e il 2024 almeno 300 mila ulteriori unità stanno uscendo dal pubblico impiego (si stima peraltro che probabilmente saranno molte di più, atteso che oltre 500 mila dipendenti nel 2021 avevano già oltre 62 anni e 183 mila avevano raggiunto oltre 38 anni di anzianità di servizio). È stato sbagliatissimo farsi contagiare dalla cultura dell’austerità generalizzata e a prescindere, intrisa di pregiudiziali sensi di colpa, in parte autoindotti da una mentalità diffusa ancora troppo provinciale (culturalmente subalterna, per debolezza di identità), in parte eteroindotti, non sempre disinteressatamente. Non che il debito pubblico monstre non esista, certo. Ma la medicina deve guarire il paziente, non ucciderlo.

 

La conseguenza, invece, è stata la rinuncia alla scelta pubblica, che è sempre e in ogni tempo decisione selettiva: dove tutto, dove nulla; dove prima, dove dopo; dove meno, dove più. L’essenza stessa della politica, in Occidente. Le difficoltà che stiamo incontrando sul Pnrr non sono frutto dell’imponderabile. Ma anche, se non soprattutto, di ricette che volevano semplicisticamente essere solutive e che invece ci stanno ponendo in serissima difficoltà: in primis, i blocchi generalizzati per un decennio del turn over, figli dell’idea - allo stesso tempo illusoria e suicidaria - che ogni collocamento a riposo di un’unità di personale pubblico fosse solo (o, al massimo, essenzialmente) un’aurea e imperdibile occasione di risparmio di spesa pubblica. Non solo non programmando tutti i ricambi effettivamente necessari (anche quelli selettivi, cioè), ma rimuovendo (con fastidio non scevro talora di compassionevole altezzosità verso i dissenzienti) anche il solo pensiero di un parziale ricambio.

 

Poi, una pandemia imprevista (ma, nella storia del mondo, non certo la prima....) innesca una tempesta planetaria che esita nel Pnrr, e non abbiamo una Pa pronta ad attuarlo. Di più, fa sì che una sfida immane ci trovi oggi con personale pubblico inadeguato, specie sul territorio, per numeri e per profili (quelli specialistici, in particolare). Avendo smesso di assumere, ne abbiamo, fra l’altro, disincentivato la produzione da parte del nostro sistema formativo. E ora, non ne abbiamo abbastanza, senza ovviamente poter venire fuori dal problema in poche settimane. Mentre tutto questo accadeva, per paradosso il diritto Ue creava condizioni progressivamente di sempre maggiore necessità di questi profili (si pensi agli esperti di rumore, essenziali per le piste di un aeroporto come per i parchi eolici), e di crescente indispensabilità di interazione fra privato e pubblico. Ma quale pubblico? Quello impoveritosi nei numeri (non solo assoluti ma anche relativi) e nei tratti caratteristici?

 

Eppure, quello che si sarebbe dovuto e potuto evitare è invece accaduto. E si torna a parlare, in Europa, di austerità. Ma quale? Quella «a prescindere»? Quest’ultima ricetta non ha funzionato (non solo in Italia), aggravando taluni problemi. Dobbiamo trarre insegnamento da quanto accaduto, nella consapevolezza che per arrivare alle «future generazioni» occorre porsi anche il tema della sorte di quelle attuali. A fortiori, alla luce degli indicatori demografici. Fors’anche perché, come diceva Paul Valery, il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta.