La polizia lasciò la casa della sorella per la pista albanese. E i carabinieri centrarono l’arresto. I militari tornarono a frugare nell’appartamento della sorella Rosalia fino al ritrovamento del pizzino decisivo sulla malattia

Una pista considerata ormai battuta e bruciata. Troppo accorti, troppo guardinghi nella cerchia familiare di Matteo Messina Denaro per sperare che da lì, dall’ascolto della sorella Rosalia, le microspie dessero la battuta decisiva per un clamoroso arresto mancato da trent’anni.

 

Alla testa delle operazioni di ricerca del latitante stragista la polizia decise di concentrare gli sforzi su una nuova dritta, l’ennesima che dava il boss all’estero. Era successo in passato, si favoleggiava anche di un figlio in Inghilterra, lo avevano cercato anche in Nord Africa. Tesi, ancorate a soffiate, rivelatesi infondate ma non del tutto campate per aria.

Considerate la finanziarizzazione che sotto la sua direzione ha avuto la cosca di Castelvetrano, la capacità di relazione con pezzi dell’imprenditoria internazionale e il ponte aperto per i traffici di droga con l’altra sponda del Mediterraneo, approdo di numerosi altri fuggiaschi.

 

Così la pista albanese, l’ultima nell’elenco delle informazioni riservate con le quali gli investigatori della polizia avevano dovuto fare i conti, dava Matteo da qualche parte su un’altra sponda, ma dell’Adriatico. Fu anche per questo che la polizia cessò di occuparsi di Rosalia e della sua casa. E fu a quel punto invece, probabilmente fidando su un’altra dritta considerata affidabile arrivata a centinaia di chilometri di distanza da Campobello di Mazara, ultimo ricovero del boss, che i carabinieri decisero di riprendere da dove la polizia aveva lasciato: la casa di Rosalia.

 

Non le parole, non almeno quelle dette, si rivelarono decisive ma un pizzino che stava dentro la gamba di una sedia. Fu così che si seppe della malattia che ha consumato fino alla quarta operazione il boss. Fu così che, incrociando dati sui malati terminali della provincia si è arrivati alla Maddalena di Palermo e all’arresto in clinica il 16 gennaio scorso.

 

“Mi avete preso per la malattia”, ha detto il boss nel suo primo interrogatorio. E in fondo, spavalderia a parte, ha avuto ragione. Perché senza la necessità di esporsi per le cure, l’obbligo di doversi munire di un telefonino per i contatti con l’ospedale, la vanità di usarlo anche per corteggiare delle compagne di cure, il blitz non ci sarebbe stato.

 

Invulnerabile, del resto, lo è stato per trent’anni. Sarà per questo che anche nel suo primo interrogatorio ha rivolto un pensiero indiretto anche a quello che viene considerato uno dei più preziosi protettori, l’ex sottosegretario forzista Antonino D’Alì. Il politico condannato a 6 anni per concorso esterno in associazione mafiosa era entrato in carcere a dicembre, appena una manciata di giorni prima della cattura del boss. Per Matteo quel reato è “farlocco”. E lo ha detto ben prima che sulla presunta inconsistenza della fattispecie si pronunciasse lo stesso ministro Carlo Nordio.