Il caso raro di un’intellettuale in grado di proiettarsi tutta intera nel mondo che desiderava perché almeno una fiammella di quel fuoco possibile restasse accesa

Quando questo articolo verrà pubblicato saranno passati diversi giorni dalla notte di San Lorenzo e dalla morte di Michela Murgia. Saranno scivolati nelle ombre della rete milioni di post, di storie Instagram, di elzeviri e di ricordi, di fotografie in cui Michela sorrideva, perché è raro che non lo facesse, anche se alcuni andavano in cerca delle sue immagini imbronciate per poterle dare della strega.

 

Ma saranno passati comunque dei giorni, e dunque i fiori di carciofo del funerale saranno appassiti, e le notifiche sui telefonini, impazzite nelle prime ore, saranno quasi nulle, e avremo riso nel frattempo, e l’estate starà dolcemente volgendo al termine, e i giorni di agosto si staranno consumando in attesa della grande ripresa, le agende pronte, i telefoni carichi, i biglietti dei treni già fatti. In altre occasioni, avremmo già dimenticato chi abbiamo pianto con sollecitudine pubblica, distribuendo ricordi e immagini come dolcetti.

 

Ma questa è una storia diversa. Non dimenticheremo Michela Murgia: e non parlo di coloro che hanno avuto la benedizione di conoscerla e di ascoltarla e di leggerla o addirittura di vivere con lei. Parlo dei molti che, anche se non hanno mai aperto un suo libro, sanno chi era, e quale era la sua concezione della vita e della giustizia e dell’amore.

Perché Michela è stata uno dei rarissimi intellettuali in grado di proiettarsi tutta intera nel mondo che desiderava perché almeno una fiammella di quel fuoco possibile restasse accesa.

 

È molto difficile definirla con una parola sola. Per una volta, scrittrice non basta: perché sono pochi gli scrittori in grado di tessere un unico filo dalla prima opera all’ultima, senza che chi legge se ne renda conto. Mi viene in mente Stephen King, che Michela amava moltissimo, così come amava tutte le storie: negli anni in cui faceva la portiera di notte giocava di ruolo, e leggeva Tolkien e parlava l’elfico, e leggeva prima ancora Marion Zimmer Bradley, scoperta sulla nave che dalla Sardegna la portava nel continente (lo ha raccontato in un piccolo e prezioso libro, L’inferno ha una buona memoria, pubblicato da Marsilio).

E leggeva George Martin e le Cronache del ghiaccio e del fuoco: al Salone del libro di qualche anno fa scelse di omaggiare Arya Stark, la giovanissima vendicatrice de Il Trono di Spade.

Testimonanze
«Michela Murgia lottava per la dignità di tutte le persone escluse dai diritti»
11/8/2023

Aveva anche lei una «lista di Arya», con i nomi delle persone che le avevano fatto del male. Almeno per un po’, credo: perché poi la lista è diventata troppo lunga, viste le tonnellate di odio che negli anni le si sono riversate addosso.

Dunque, Michela era una narratrice lucidissima e geniale che fin dall’inizio ha avuto chiaro cosa doveva raccontare. Prima con Il mondo deve sapere, forse il più anomalo dei suoi libri, giustamente feroce nel mettere in scena una giovane donna colta che impatta con il mondo del lavoro (in un call center, nel caso). Ne seguì un film di Paolo Virzì, e non fu un’esperienza semplice: posto che Michela abbia mai avuto esperienze semplici. Venne Accabadora. Fu un trionfo.

Se Michela fosse stata simile a molti altri colleghi, avrebbe continuato sulla strada sicura, quella della Sardegna rurale e arcaica narrata con gli occhi di una donna di oggi.

Non lo fece, se si esclude l’omaggio teatrale in cui interpretò Grazia Deledda in Quasi Grazia. Invece, continuò a curare il blog (aveva un blog, e già allora aveva cominciato a capire come il mondo della Rete fosse di enorme importanza per costruire comunità) e cambiò rotta.

Scrisse un saggio, Ave Mary: lo scrisse da credente, da laureata in teologia, da femminista. Perché femminista era sempre stata, dopo quel famoso viaggio in nave, e stava mettendo insieme i tasselli di quella che sarebbe stata l’unica grande opera dove si parla di diritti, di maternità, di amore.

Maria, che è al centro di Accabadora, è una figlia d’anima. Chirù, il protagonista del suo terzo romanzo, è un figlio d’anima. Di figli e figlie d’anima o di elezione o di scelta si parla nei saggi, in Saremo Tempesta, in God Save the Queer. Michela faceva, in una parola, anima. Fare anima, diceva John Keats e dopo di lui James Hillman, significa stare nel sacro e nella vita, far sì che la vita stessa diventi sacra attraverso l’amore reciproco e attraverso lo stare insieme per ottenere che anche chi non riesce ad aver voce trovi le parole per chiedere di spezzare la solitudine, che è quel che più conta, poi, nell’esperienza del mondo.

 

Tre ciotole, l’ultimo libro, è davvero la Nigredo, l’Opera al nero, il momento in cui si lasciano andare tutti gli elementi alchemici per tornare al punto di partenza. Solve et coagula. Per raggiungerla, Michela non ha risparmiato un solo istante della sua vita.

 

Mi fa male leggere che avrebbe usato i social per ottenere like. Non è così: ha usato i social, così come ha usato la radio e la televisione e i giornali come L’Espresso per raggiungere il maggior numero di persone possibile e non per convogliarle nei teatri dove presentava libri o dove proponeva, con la meravigliosa Chiara Tagliaferri, l’esperienza live del podcast Morgana (che ha raccontato alle giovani donne, più di altro, cosa significa essere considerate storte o marginali, e come si esce da quella condizione). Lo ha fatto per distribuire passione e consapevolezza: pagando, tutte le volte, come quando in Istruzioni per diventare fascisti ci ha messo davanti a quello che non volevamo vedere.

 

Fin quasi all’ultimo giorno. Quello che, come chi la ama spera, le abbia consentito di passare all’Albedo degli alchimisti. Di essere cigno, rosa bianca, luce.