Occorrerà vigilare perché ciò che è uscito dalla porta non rientri dalla finestra. È vero che bisogna garantire la stabilità ma anche la correttezza e la buona fede sono cardini del sistema

Accanto ai soliti tormentoni il Ferragosto ci regala quest’anno il dibattito sulla famigerata tassa sugli extraprofitti delle banche, approvata “a sorpresa” dal Consiglio dei ministri nel decreto Asset, come imposta una tantum, già adottata peraltro in altri Paesi europei a cominciare dalla Spagna, con diverse modalità.

 

Si tratta, in gergo economico, di una windfall tax ossia un prelievo straordinario che viene applicato a settori economici che beneficiano di guadagni prodotti da situazioni straordinarie. Nel primo trimestre di quest’anno infatti le principali banche hanno visto, a causa del rialzo dei tassi, aumentare i propri profitti in media addirittura del 75 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, senza avere sostenuto particolari costi aggiuntivi. La misura involge questioni complesse specie in relazione all’inflazione e agli effetti macroeconomici che potremo analizzare solo nel tempo e infatti gli stessi mercati, viste le implicazioni, dopo le pesanti perdite di Borsa registrate nei primi giorni, hanno subito digerito la misura con un rimbalzo dei titoli.

 

Viceversa, ciò che fa davvero sorridere è la propaganda politica “stereo” con l’esecutivo che da un lato ne sbandiera gli effetti salvifici dopo l’impopolare abolizione del reddito di cittadinanza e dall’altro le opposizioni che a loro volta provano persino a intestarsene la paternità putativa, dopo aver tentato qualche timida critica isolata.

 

D’altra parte sono sempre più disarmanti i brevi videoclip che passano nei telegiornali in cui i politici ogni giorno declamano un “pensierino tecnico”, uguale e contrario su qualsiasi argomento, a seconda degli schieramenti, a guisa di scolaretti alla prima elementare a caccia della medaglietta di capoclasse. Si tratta di uno spettacolo nuovo in cui ogni giorno su argomenti tecnici compaiono improbabili testimonial con brevi dichiarazioni recitate a memoria, che un tempo vedevamo fortunatamente solo alla fine delle tribune elettorali e che già allora ci apparivano ridicole e che oggi dobbiamo sorbirci quotidianamente.

 

Nella fattispecie si tratta di un’imposta pari al 40 per cento sul maggior valore del margine di interesse degli ultimi due esercizi che ecceda per almeno il cinque per cento il margine del 2021 e il dieci per cento il margine dello scorso anno, non deducibile ai fini delle imposte sui redditi e dell’Irap e che andrà versata nella maggior parte dei casi entro il prossimo giugno. Il margine di interesse è la differenza tra quello attivo incassato dalle banche come guadagno per aver concesso prestiti o mutui e interessi passivi che dovrebbero pagare alla clientela sui conti correnti e di deposito.

 

Invero le banche si guardano bene dal remunerare adeguatamente i risparmiatori in proporzione ai maggiori ricavi, specie perché la maggior parte dei clienti sono poco solerti nel rivendicarli o peggio non hanno la forza di farlo. Il modello ricalca quello adottato per le imprese energetiche contro il caro-bolletta e che allo stesso modo dovrebbe contenere l’impatto sociale derivante dall’aumento delle rate dei mutui, in quanto le maggiori entrate dovrebbero servire a rifinanziare il fondo prima casa e gli interventi di riduzione della pressione fiscale. Le misure dovrebbero essere inserite nella prossima manovra finanziaria con entrate stimabili, in mancanza allo stato di una relazione tecnica, in un massimo di 2,8 miliardi di euro. La cifra è sufficiente per i mutui, che valgono alcune centinaia di milioni, ma insufficiente per la riduzione della pressione visto che rinnovare, ad esempio, il taglio del cuneo costa per un solo anno circa 9 miliardi.

 

In tutto questo è subito emerso il disappunto, dietro il silenzio sintomatico, dell’Abi e degli istituti di credito, colti alla sprovvista senza preavviso, e che non hanno avuto il tempo di mettere in atto le consuete attività di lobbying. Tant’è che, rispetto alla prima versione, ci sono state già delle epifaniche modifiche, come l’introduzione del tetto massimo per cui la tassa non potrà essere superiore allo 0,1 per cento del totale dell’attivo. È prevedibile peraltro che aumenterà il costo dei servizi e dei mutui di nuova accensione facendo ricadere su imprese e famiglie una parte dell’imposta con un effetto tutt’altro che virtuoso, su cui occorrerà vigilare con grande attenzione in modo da evitare che ciò che è uscito dalla porta rientri dalla finestra.

 

Ma al di là delle chiacchiere il vero tema è altro. Una nota del Mef recita che la misura non inciderà sulle banche che hanno già adeguato i tassi di interesse attivi di remunerazione seguendo le raccomandazioni della Banca d’Italia e andrà a colpire quelle che stanno abusando della propria posizione, disincentivando i soliti comportamenti scorretti. Vorremmo allora chiedere al Mef dove stanno queste banche? Forse su un altro pianeta? Sfidiamo qualsiasi lettore a trovare sui propri conti un incremento del 75 per cento della loro remunerazione in questi sette mesi proporzionale ai guadagni delle banche.

 

Sarebbe doveroso che gli istituti di propria iniziativa aumentassero i tassi sui conti a cominciare da quelli di poveri anziani che neppure possono spostarsi per reclamarli senza invece inviare quegli odiosi proclami di mutamento unilaterale delle condizioni solo quando conviene loro. E invece, come al solito, le istituzioni finanziarie, Bce in testa, fanno le forti con i deboli e le deboli con i forti. È vero che le banche sono imprese e che occorre garantire la stabilità del sistema ma anche la correttezza e la buona fede sono cardini del sistema. Quindi invece di fare le solite polemiche strumentali sugli effetti di una misura complessa che comunque porterà gettito, sia questa la volta buona in cui tutti gli attori provino finalmente a fare giustizia ed equità.