La conoscenza non può rimanere confinata nella torre d’avorio dell’accademia. Trasparenza, comunicazione, accessibilità e responsabilità sono essenziali

Il secolo scorso ha prodotto, accanto alle grandi tragedie, due fondamentali processi evolutivi: l’enorme crescita della conoscenza e la notevole espansione della democrazia. Due dimensioni inseparabili ed interdipendenti nella terza grande transizione nella storia dell’umanità verso la «società della conoscenza», dopo la rivoluzione dell’agricoltura risalente a diecimila anni fa e quella industriale ben più recente. Senza la conoscenza non può esserci democrazia, perché la prima consente la corretta autodeterminazione e, per effetto, la scelta consapevole.

 

La conoscenza, caratterizzata ormai da rapporti decentrati dove la trasmissione del sapere avviene nella forma della Rete, è un diritto universale dell’uomo (che già Dante nel Convivio definisce il «pane degli angeli» cui tutti aspirano) e quindi il cosiddetto knowledge divide rappresenta una vera e propria emergenza democratica, soprattutto per coloro che non possono avervi accesso.

 

La convenzione di Aarhus, sottoscritta e ratificata anche dall’Italia, per esempio, riconosce il diritto dei cittadini all’accesso alla migliore conoscenza scientifica disponibile sullo stato dell’ambiente. E questo diritto non è fine a se stesso, ma è elemento essenziale a compartecipare alle scelte in materia ambientale. In generale, l’accessibilità alla conoscenza codificata è un vero e proprio bene pubblico in quanto il grande sviluppo delle tecnologie degli ultimi trent’anni ci ha dato accesso ad una enorme quantità di informazioni generando così la fenomenologia parallela dell’incompetenza diffusa prodotta dai social network e dal web. I populismi e le polarizzazioni, alimentati a colpi di fake news, sono fenomeni ormai inevitabili, immanenti e strutturali, che vanno quotidianamente combattuti. Nessuno di noi è al riparo da un’informazione guidata e da meccanismi di condizionamento occulto e l’accesso ad una grande mole di informazioni e dati non è certo di per sé sinonimo di maggiore libertà e democrazia.

 

Ancora più rilevante è quindi divenuto il ruolo della scienza che a sua volta ha bisogno della democrazia specie in un’epoca in cui i due terzi delle risorse alla ricerca vengono da imprese private che hanno obiettivi non generali e un terzo viene da governi che seguono anche le logiche del mero consenso. Oggi esistono più scienziati e risorse di tutti quelli esistiti nella storia dell’umanità, eppure la democrazia ha bisogno della scienza, specie quando è chiamata a governare la tecnologia in modo da contrastare quelle che Joseph Stiglitz chiama «promesse infrante» ossia la maggiore quantità di ricchezza materiale e la maggiore quantità di ingiustizia mai prodotte dall’uomo. La scuola e l’università in questo contesto sono i santuari di tutto ciò e meriterebbero ben altra cura da parte delle Istituzioni.

 

Questo è il senso del vantaggio universale della conoscenza e del ruolo che la stessa assume, dal punto di vista economico, sociale e politico, nei processi di vita, da alimentare in maniera continua da nuova conoscenza nella società e soprattutto per la società. La vicenda pandemica ha rappresentato un vero e proprio stress test con un bombardamento di conoscenza scientifica che se da un lato ha disorientato l’opinione pubblica, dall’altro ha fatto emergere l’essenza stessa del suo procedimento. Nessun singolo scienziato gode del monopolio della verità, e le conclusioni cui giunge la ricerca derivano dal confronto tra posizioni diverse e infine dal riscontro empirico. E tutto questo deve essere trasparente e noto alla collettività.

 

D’altra parte la «repubblica della scienza» nasce nel Seicento proprio abbattendo il «paradigma della segretezza» e quindi con un intrinseco carattere democratico. Tutto deve essere comunicato a tutti nella piena trasparenza. I membri della comunità scientifica individuarono un insieme di valori che Robert Merton ha riassunto nell’acronimo Cudos: comunitarismo (comunicare tutto a tutti), universalismo (tutti possono concorrere), disinteresse (perché la scienza non deve essere a beneficio solo di alcuni), originalità e infine, scetticismo sistematico. In sintesi, la conoscenza appartiene a tutti e la sua costruzione deve essere trasparente. Questo approccio è presente anche nelle politiche dell’Unione Europea, in particolare a partire dal settimo programma quadro che chiedeva di stimolare il dialogo e il dibattito sui risultati della ricerca scientifica con un pubblico vasto e non solo con la comunità di riferimento. Tali progetti hanno incluso generalmente un capitolo (workpackage) legato alla comunicazione pubblica della ricerca, quella che viene denominata dissemination.

 

La conoscenza scientifica, insomma, non può rimanere chiusa in una torre d’avorio, in una sorta di isola delle Galapagos dove ci sono lucertoloni che conservano la memoria genetica di quello che fu. C’è una emergenza storica di cui la scienza deve farsi carico nel guidare l’umanità verso un sapere codificato di origine controllata. Trasparenza, comunicazione, accessibilità e responsabilità devono essere le chiavi di questa terza transizione dell’uomo.

 

E per comprendere appieno il senso della necessaria evoluzione si rivela efficace il celebre scambio di battute tra Charlie Chaplin e Albert Einstein quando si conobbero a Pasadena nel 1931 alla prima del film “Luci della città”. Einstein disse: «Quello che ammiro di più nella sua arte, è la sua universalità. Lei nei suoi film non dice una parola, e nonostante ciò tutto il mondo la comprende». «È vero – rispose Chaplin – ma la sua gloria allora è ancora maggiore: il mondo intero la ammira, anche se nessuno capisce una parola di ciò che dice».