Dalle pinete alle paludi, in Italia ci sono vari habitat da recuperare. E tra quelli più a rischio, su cui interviene la norma da poco approvata in Europa, ci sono le spiagge spianate per costruire i lidi

Se si chiede a un ambientalista di fare un esempio di cosa cambierà in Italia quando diventerà operativa la legge sul ripristino della natura, appena approvata dal Parlamento europeo, si capisce subito perché il governo italiano l’ha osteggiata con tanto impegno e perché i giornali di destra la dipingono come una sciagura.

 

«L’ecosistema che ha più bisogno di ripristino in Italia è quello delle dune di sabbia: proteggono le coste dall’erosione e dalla crescita del livello del mare, ma ogni estate vengono abbattute per far posto agli stabilimenti balneari», spiega Filippo Tantillo che, dopo una decina d’anni di sopralluoghi nel Paese nel quadro della Strategia nazionale per le aree interne, ideata dall’ex ministro Fabrizio Barca, ha scritto “L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne” (Laterza). E subito dal discorso sull’ambiente si apre uno squarcio che rimanda alla politica, a tante recenti battaglie di Lega & company per evitare ogni nuova regolamentazione dello sfruttamento di dune e spiagge.

 

Lo conferma Gianluca Catullo, responsabile del settore specie e habitat del Wwf: «Di certo, se dovessimo buttare giù una lista degli ambiti in cui applicare la “restoration law”, gli habitat costieri sarebbero ai primi posti. E non solo le dune: anche i boschi planiziali, quelle foreste di pianura che sono state quasi totalmente distrutte. A Policoro, in Basilicata, noi del Wwf stiamo lavorando per ripristinare la pineta. Ma riportare una pianura arida all’aspetto che aveva prima del disboscamento, piantumando di nuovo le essenze vegetali originarie, è un impegno enorme, che richiede molto tempo e grandi investimenti».

 

Ecco: da dove arriveranno i fondi per finanziare il ripristino della natura è uno dei punti ancora oscuri della legge approvata il 12 luglio scorso a Bruxelles. Un’approvazione arrivata con 336 voti a favore, 300 contrari e 13 astensioni, dopo che, con un margine altrettanto risicato, era stata bocciata la richiesta di rigetto della legge avanzata dal Partito Popolare Europeo e dai gruppi di destra. La svolta ambientalista è nata in realtà da una querelle tra socialisti e popolari. Tra i due litiganti, è passata la proposta di legge che impegna i Paesi dell’Unione a ripristinare entro il 2030 il 20 per cento del proprio territorio.

 

È solo il primo passo di un iter legislativo che deve ancora passare dai negoziati con il Parlamento europeo sulla forma definitiva della legislazione e dall’approvazione finale da parte del Consiglio e del Parlamento stesso. C’è poi il chiarimento sui finanziamenti: «Come Wwf abbiamo chiesto che venga stanziato un fondo natura», dice il vicepresidente Dante Caserta: «Ma abbiamo fatto notare che già oggi ci sono almeno otto programmi di finanziamento dell’Ue che proteggono la biodiversità. Quindi si può attingere a fondi già disponibili, purché si riesca a farseli assegnare…».

 

Il cammino comunque è segnato: anche se la via dell’approvazione sarà sicuramente segnata da rallentamenti di ogni genere, una marcia indietro non è immaginabile. Tra i risultati auspicati, si parla di «invertire il trend del declino degli impollinatori», di «reumidificazione delle torbiere drenate», di 25 mila chilometri di fiumi da riportare «a flusso libero». Ma in concreto in Italia che cosa cambierebbe? O meglio, per essere ottimisti, che cosa cambierà?

 

Protagonista della maggior parte degli interventi sarà l’acqua. Quella dei fiumi, per cominciare: «Riportarli a flusso libero significa togliere tutte le strutture grandi e piccole, spesso inutili oppure ormai inutilizzate, che impediscono al fiume di fare il fiume: cioè, per esempio, di allargarsi in zone non abitate in caso di forti piogge che portano a un’ondata di piena», spiega Catullo. Cercare di riparare ai danni fatti nel passato è essenziale: il riscaldamento globale, che porta a eventi estremi sempre più frequenti, richiede una tutela del territorio maggiore di quella che si è avuta finora.

 

Tantillo ricorda il caso di «una frazione di 45 abitanti che si trovava sotto una frana, in Sardegna. Il Comune ha incaricato una ditta di mettere la frana in sicurezza, la ditta ha spostato la terra con le ruspe, ma alla prima bomba d’acqua la terra si è riempita come una spugna ed è franata sulle case. Due persone sono morte e il paese è stato abbandonato».

 

Il delta del Po ha un altro problema, la salinizzazione, e già oggi si sta lavorando per cambiare le cose. «La riduzione dell’acqua del fiume provoca il cuneo salino: il mare, cioè, risale nel letto del Po e acidifica la terra», continua Tantillo. «Parliamo di terreni che si trovano già vari metri sotto il livello del mare, nella zone della bonifica del Polesine dopo l’alluvione del 1951. Le idrovore succhiano via l’acqua con una spesa energetica immensa, ma oggi restituiscono un terreno inacidito. In quella zona stanno nascendo alcuni grossi progetti di rinaturalizzazione dell’area, attraverso la riforestazione e la reimmissione dell’acqua».

 

Può far venire i brividi sentir parlare di ripristino delle zone umide, cioè di ritorno alle paludi: il ricordo della malaria, della zanzara anofele e della lotta contro gli acquitrini è ancora vivo non solo nei libri di storia, ma anche nella memoria degli anziani. Eppure la strada per il ripristino della natura passa anche da lì, assicura Catullo: «Va fatto con cautela, monitorando il ritorno degli insetti. Ma i vantaggi di avere zone umide in cui l’eccesso di pioggia possa sfogarsi, evitando alluvioni, sono sicuramente maggiori dei problemi che può provocare una palude. Almeno oggi che la malaria in Europa non c’è più».