Gli incendi, l’incuria e il crimine. Gli aeroporti chiusi e al collasso, i turisti in trappola nell’isola. I blackout, l’acqua che manca. Lasciando solo l’ombra della dignità. E lo scioglimento del patto sociale. Il racconto della scrittrice catanese

Altro che letteratura. Innanzitutto la pietra scotta. Mentre cammini ti brucia le suole con cinica e sorda lentezza, e ti soffia addosso dai muri, in faccia, un fiato caldo malefico che esala dai capitelli, dai fregi barocchi, dai puttini sotto le zanzare, e tutto arde e crepita, feroce e incurante, in un silenzio strano, rotto adesso da un urlo confuso, forse richiesta d’aiuto o un lampo di euforia, perché siamo in centro – piazza Duomo, Catania, 44 gradi – e solo qualche tedesco e un gruppetto di americani, riusciti fortunosamente ad arrivare, hanno l’ardire di uscire in strada rischiando un colpo di sole.

O forse no. Sono rimasti prigionieri qui, per questo imprecano con gli occhi spersi. Intrappolati, perché l’aeroporto di Catania è ancora chiuso per l’incendio, quello di Palermo è minacciato dalle fiamme che assediano l’hinterland della città, e per raggiungere quello di Trapani ci vogliono più di 5 ore in bus, a parte le file nel sole che frigge.

Altro che letteratura. Dimenticate i sogni che la pietra nera nutre e raddensa secondo il gran catanese Vitaliano Brancati, e le gaie scorribande in queste vie di Goliarda Sapienza, e le estati riarse ma vive delle lande verghiane, qua siamo nell’anno 2023 dell’Epocalisse, e questo è il regno della lava, la pietra che scotta di più, perché serba il calore a lungo e lo rilascia sadicamente piano.

Lui sì l’ha detto benissimo, Tomasi di Lampedusa: «Nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia». Le sirene delle ambulanze fanno da esatta colonna sonora, assieme a quelle, farneticanti, degli antifurto di case e auto impazzite per il tilt. Mentre colonne di fumo, e nuvole nere, si alzano e mischiano in cielo.

L’estate che sciolse ogni cosa, nel fortunato romanzo di Tiffany McDaniel, in effetti era opera di un demonio. Dev’esserci, in tutto questo, lo zoccolo del diavolo, se, come dicono amministratori pubblici e portavoce delle aziende di luce e acqua, il calore ha bruciato come per maleficio i cavi elettrici nel sottosuolo e dunque inibito la diffusione idrica.

Tant’è: i superstiti in piazza si lavano la testa e i piedi nella fontana dell’Amenano, che appunto scorre occulto sotto terra, ma è un labilissimo rito propiziatorio. I più audaci – tre ragazzi, qualche giorno fa – si sono immersi nudi alla fonte, generando scandalo e anatemi, rafforzati dal fatto, evidente, che il fanciullo in marmo dell’Amenano ha una foglia sulle pudenda, e l’esempio doveva dissuaderli. O no?

Frammenti e scaglie di narrazioni sciolte. O liquefatte. La città scorre e si apre come un portale sinistro e vertiginoso, dove l’horror, come nei migliori romanzi, non si vede. Lo spavento è dietro le porte chiuse. Nascosto dai muri roventi. Tra le famiglie barricate in casa, dove da giorni sono muti i frigoriferi, i ventilatori, i condizionatori, e non puoi nemmeno caricare il cellulare o il computer, perché manca la luce o arriva a tratti. Dove non puoi, a 40 gradi, nemmeno farti la doccia: manca anche l’acqua. L’angoscia sale dietro le saracinesche chiuse degli alimentari, bar e ristoranti dove non puoi esercitare senza acqua e/o frigorifero, tra le sale dei parrucchieri e i lidi. Mentre i cantieri vengono sospesi, e gli animali e i campi crepano di arsura.

Ecco: conta fino a 45 gradi, togli elettricità e acqua e vedi cosa resta. L’ombra della dignità. Lo scioglimento del patto sociale. Frantumazione della sicurezza.

Tutto questo, ti dici, l’ho già visto. Le risse in strada per inezie, gli ospedali presi d’assalto e con gli impianti a rischio, i roghi lungo le autostrade. I boschi in fiamme, la spazzatura a mucchi. Un déjà-vu. Questi paesaggi li conosciamo, li abbiamo percorsi tra film di fantascienza e climate fiction. Perché la letteratura è spia, avvertimento e premonizione. Solo che te ne accorgi sempre dopo, quando è tardi.

Questa città che arde dentro un Paese che annaspa, straziato dai tornado e dal fuoco, fra l’incoscienza e il delirio di supercelle e downburst, quest’inferno diffuso dove la guerra è un serial che non finisce mai e l’intelligenza artificiale fa più paura dell’atomica, c’era già immaginata, impaginata, nei romanzi di Vandermeer, in quel mondo di oltranza e ultimità dove tutto è labile e indistinto, perché non siamo più i padroni dell’universo e ci occorre una nuova lingua per intenderci – umani, tecnocreature, animali e mutanti, soggetti transgenici. Lui, Vandermeer, lo chiama New Weird, ma la sua Area X, cui è dedicata la sua trilogia, è uno spazio prossimo, contiguo, e ci riguarda tutti.

Ha torto Amitav Ghosh quando dice che l’umanità crede alla letteratura, più che alle teorie e agli allarmi, perché rende visibile l’invisibile trasformando le idee in storie. Noi non crediamo nella letteratura come non crediamo agli scienziati, agli studiosi e agli attivisti che ci spiegano ogni giorno da anni come e perché stiamo uccidendo il pianeta, tra prove e test e documenti.

Alla fine, questo enorme sasso abbrustolito che è la terra, orbitante in moto convulso nel cielo, non finirà la sua storia. Non si avvicina la fine del mondo, tranquilli. Sarà solo la fine – annunciata, autopromossa – del nostro breve e sciagurato soggiorno sulla terra.

Ci sopravviveranno gli androidi, che avranno un rapporto più intelligente e accorto col pianeta, e alcuni animali, come ad esempio la mia tartaruga, che mentre scrivo immerge la testa nella ciotola d’acqua del gatto, inclinandola con le zampine in un prodigio di grazia atletica. Ma chiudo subito il pezzo, la lampada sfarfalla, ed è buio.