Giorgia Meloni diserta la fiaccolata nel giorno dell’anniversario della morte di Paolo Borsellino. Una preoccupazione anticontestazione. Perché la destra al governo prova ancora una volta ad annettersi definitivamente il magistrato nel Pantheon degli eroi borghesi nostalgici

Pregni di pretese e privi di sostanza, uno dietro l’altro gli anniversari consumano fiumi di retorica dietro la coltre di un ricordo che non è mai, non riesce a essere, memoria, monito, lezione per il presente ma si conforta nella rassicurante passerella dell’esserci per l’esserci.

Con la destra post (post?) fascista al governo, l’elenco dei ministri partenti per Palermo al seguito della premier, si ingrossa oltre misura. A trentun anni dall’eccidio di via D’Amelio, nell’affollato calendario di iniziative del fronte antimafia diviso e divisivo come non mai, ci saranno Gennaro Sangiuliano, stregato dalle gaffe, l’ex governatore Nello Musumeci l’unico al mondo che abbia preso l’alta velocità da Catania per Roma e perfino il titolare dello Sport Andrea Abodi, perché si sa, quello è lo zoccolo duro del consenso giovanile dei Fratelli. Non ci sarà il garantista a senso unico Carlo Nordio, titolare della Giustizia che si spinge dove neppure i berluscones osavano. Ci sarà, c’è sempre, Matteo Piantedosi che è il titolare dell’Interno, più di Matteo Salvini che non ha mai davvero traslocato alle Infrastrutture.

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Con Meloni in testa (assente alla fiaccolata per paura di contestazioni), che ascrive Paolo Borsellino al suo personalissimo Pantheon, i Fratelli tutti hanno idea che annettersi definitivamente il magistrato ucciso ora sia finalmente possibile. Del resto è un’idea che parte da lontano. Dalla tradizione del doppio sit-in che ha sempre mobilitato il Fuan, dallo slogan “meglio un giorno da Borsellino che cento da Ciancimino”. Simboli di un racconto radicato e ingigantito, nella convinzione che le idee di un giovanissimo studente universitario vicino al Fuan perché astrattamente di simpatie monarchiche basti a fare del magistrato un eroe borghese ma nostalgico. Il padre nobile che manca agli ex ragazzi dei campi Hobbit, che li riscatti dalla mediocrità del potere presente. Con i suoi riti sfinenti da accomodamento permanente.

Mentre un pezzo della famiglia Borsellino cerca la verità nell’unico luogo in cui dovrebbe materializzarsi, l’aula dei tribunali, un altro si fa scudo del popolo per una post verità che ha gambe fragili, tante congetture e molto di irrisolto. In un profluvio di misteri che accompagnano sempre quella giustizia impotente che a un passo dalle sentenze si ritrae e si accomoda sul divano della pubblicistica.

Come tutti i 19 luglio, specchio di un’Italia che non trovando mai la pistola fumante si accontenta di accapigliarsi sul fumo, passerà anche questo.

È stata la mafia, no è stato lo Stato. I mandanti, occulti per definizione, erano in Parlamento. No, ci stavano per entrare. E poi: c’erano anche i colleghi pavidi, conniventi o solo invidiosi. Era per la trattativa, no era per gli appalti. Quasi che la complessità avesse bisogno di ridursi a partito, a squadra, a club, a coro o a tifo da stadio per risolversi. Nel nulla. Tutto congiura perché ci si allontani dall’unica cosa che sembra essere certa: Paolo Borsellino, come Falcone era un servitore dello Stato, di incrollabile, granitica, fermezza repubblicana. E perciò temibile nemico del Paese che gli è sopravvissuto. E che ora può anche celebrarlo, straziandone le spoglie a proprio uso e consumo.