Le multinazionali si proclamano campioni evergreen, i fondi verdi danno patenti ecologiche e raccolgono miliardi per imprese tutt’altro che sostenibili. Serve un intervento

Così come tante altre specie animali sono scomparse e continuano a scomparire in quella che è definita la sesta estinzione di massa, anche il genere umano è destinato un giorno ad estinguersi. Quando si parla di estinzione si deve pensare a eventi che portano alla distruzione di forme di vita in decine di migliaia di anni, che in termini geologici sono tempi brevissimi. Quindi se un essere vivente si trova al centro di un’estinzione potrebbe non accorgersene. L’Ocse prevede infatti che l’inquinamento diventerà la principale causa di morte prematura da qui al 2050. Già negli anni ’70 si affermava che la morte dell’uomo giungerà dall’ambiente ovvero dall’impossibilità di utilizzarlo per quei fini produttivi che la sua salvaguardia esclude. Eravamo tutti un pò scettici in passato rispetto a questi catastrofismi, specie noi studiosi del diritto dell’economia, ma ora le vicende ambientali e sanitarie sono così incalzanti e quotidiane che il negazionismo è persino risibile.

 

Non a caso nei nuovi articoli 9 e 41 della Costituzione si legge che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno, oltre che alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana ora anche alla salute e all’ambiente, da tutelare «nell’interesse delle future generazioni». L’espressa previsione permette al bene ambiente di passare dall’incerto status giuridico di «valore» a quello più granitico di principio fondamentale con tutte le conseguenze del caso.

 

Si tratta di limiti esterni alla libertà dell’impresa privata, non certo diretti a funzionalizzarla, che vanno dettati dalla legge. Ed è arrivato il momento, senza lobby che tengano, di scelte pubbliche ponderate e prescrizioni stringenti. In grado, peraltro, di eliminare le vergognose e diffuse operazioni di facciata, tristemente note come greenwashing. Basta con la pantomima della responsabilità sociale dell’impresa che rispetto a questi temi non deve avere alcuna dimensione etica, né vocazioni ideali rispetto all’ambiente o al benessere delle future generazioni. L’imprenditore deve fare il suo mestiere, ma essere obbligato a eliminare le esternalità negative. E gli oneri da imporre da parte dei legislatori, sul piano redistributivo, in condizioni di diseguaglianza, devono essere tali da garantire un’uguaglianza sostanziale, soggetta poi a verifica del giudice. D’altra parte anche nella parabola del “buon samaritano” un dottore della Legge chiese a Gesù: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». E Gesù gli rispose: «Ciò che è scritto nella Legge».

 

La responsabilità sociale del “buon imprenditore” consiste nel rispettare le leggi ed in particolare quelle dirette all’uguaglianza distributiva, specie quando entrano in gioco interessi e diritti cui corrispondono valori costituzionali da bilanciare. Come ha affermato la Consulta nel caso Ilva, non esiste una gerarchia di valori predeterminata, né rigida, né statica, né assoluta, poiché tutti i diritti fondamentali sono reciprocamente connessi e vanno ponderati in modo sistematico e dinamico. Il punto di equilibrio va rimesso al bilanciamento del legislatore e, in sede di controllo, del giudice, secondo i criteri di proporzionalità e ragionevolezza.

 

Le scelte, in questi casi, non comportano un conflitto astratto tra valori, ma un conflitto concreto tra persone con interessi diversi. Situazioni in cui si pone il problema delle cosiddette scelte tragiche, ad esempio, tra lavoro, ambiente e salute.

 

La serenissima Repubblica di Venezia, in caso di esondazioni del Po, aveva un “Consiglio” che decideva dove si dovevano rompere le dighe. Le scelte avvenivano in relazione alla comparazione dei danni meno gravi prevedibili per i vari terreni coltivati, con l’effetto comunque che la decisione incideva su chi doveva subire gli oneri dell’emergenza. Ma il Consiglio - di conseguenza - decideva anche l’imposizione di oneri a carico di tutti gli altri che per effetto della scelta non avevano subito danni.

 

Da più di un anno è in corso un caso rivelatore di conflitto, quello del petrolchimico di Priolo che coinvolge una serie di imprese multinazionali, una società pubblica di depurazione, numerose istituzioni, decine di migliaia di lavoratori e centinaia di migliaia di cittadini, peraltro sullo sfondo del conflitto ucraino e dei conseguenti effetti sull’emergenza energia e sulle sanzioni alla Russia.

 

In un mondo globalizzato è compito della comunità degli Stati fare interventi redistributivi, fissando limiti ed oneri. Sul ritardo esiziale non poche responsabilità ha l’Ue che finora ha agito per slogan, macroraccomandazioni, rapporti, libri verdi, gialli ed arcobaleno in cui ha suggerito inutilmente per anni a tutti di essere più buoni come a Natale ed ha contribuito a creare il mito di facciata dell’imprenditore responsabile, novello Narciso greenwasher che si riflette in modo letale nella sua finta bellezza. Ed anche la proposta di direttiva Due diligence, approvata a febbraio prevede, in modo paradossale e da stigmatizzare, doveri di diligenza senza prevedere le prescrizioni cui sarebbero riferibili. Come se tornando al consiglio di Gesù al buon samaritano non esistessero in concreto poi le leggi da osservare. Il tutto per consentire alle multinazionali di proclamarsi campioni evergreen per mascherare le gravi responsabilità che sanno di avere e ai fondi verdi di dare patenti di sostenibilità e raccogliere miliardi per imprese tutt’altro che sostenibili, mentre i loro lobbisti tramano nell’ombra per fermare la giustiziabilità di diritti fondamentali irreversibilmente lesi.