Con la televisione commerciale ha anticipato la svolta degli anni Ottanta. E gettato le basi per costruire il partito, con cui ha colto l’onda populista. Da statista, invece, ha fallito. Inseguendo sempre e soltanto la privatizzazione delle funzioni pubbliche. In un’epoca di crisi mai finita

Impossibile fare di ogni erba un fascio – in nessun caso questo vale più che per Silvio Berlusconi. Soltanto dopo aver analizzato i diversi aspetti della sua attività sarà forse possibile tracciare un filo rosso, o rosso-nero, che li collega.

L’imprenditore dimostra visione strategica, carica innovativa. Capisce, forse per primo in Europa, che il mondo di ieri della comunicazione sta finendo e non conoscerà resurrezione. Capisce che non vi saranno leggi o norme capaci di salvare il monopolio del carrozzone della televisione di Stato. La televisione commerciale ha effetti straordinari anche sullo sviluppo di numerosi settori industriali. Certo, le condizioni generali finanziarie e di mercato non sono comparabili a quelle post-euro, e tuttavia non c’è dubbio che la crescita degli anni ’80 si accompagna strettamente alla rivoluzione nel campo della comunicazione e della pubblicità introdotta da Mediaset-Publitalia. Può piacere o meno, si può ritenere tale processo positivo o negativo, la cosa non cambia: qui Berlusconi ha trasformato davvero la situazione precedente.

Poi vi è la metamorfosi di Publitalia in partito politico. Berlusconi non inventa il populismo. Populistico è il grido che erompe da tutte le piazze d’Italia con Tangentopoli. La grande crisi segnata dalla fine della terza guerra mondiale (la Guerra Fredda) viene declinata nei nostri lidi come una faccenda locale di corruzione. Anche chi comprende che di ben altro si tratta spera di usare pro domo sua la situazione. E ne resterà bruciato (la fine della sinistra italiana ha inizio da questo epocale errore). Tutta una gara a chi è più populista. E la vince Berlusconi perché nella specialità è il migliore, il più veloce, perché ce l’ha nel sangue. Forza Italia è un capolavoro tattico, reso possibile dal sistema industriale-mediatico precedentemente organizzato. Di improvvisato nulla.

Anche il partito presenta elementi di autentica innovazione. Berlusconi opera il salto, non si arresta a metà come allora altri, zavorrati dall’eredità della prima Repubblica: il mio partito non è un partito, è un Capo carismatico più i suoi amici, seguiti da cortei di clienti; la forma-partito, con strutture di base, diversi uffici competenti, congressi in cui si discute e decide il gruppo dirigente, è morta e sepolta. C’è la gente, alla gente si appella il Capo e un plebiscito ne approva l’operato. Senza Capo non si va da nessuna parte nell’impero della televisione – e ancora meno in quello dei social. E tutti a inseguire il modello, via primarie a go go, così come avevano inseguito il grido delle piazze: dagli agli untori! Anche in questo campo Berlusconi trasforma e segna una crisi reale del nostro sistema politico. Nefasta o benefica che sia, certo essa è reale, realissima e forse irreversibile.

Infine, c’è lo statista. Poiché capitò in questo Paese che un imprenditore immerso in una indistricabile rete di conflitti di interesse, coinvolto senza sosta in vicende giudiziarie riguardanti la sua attività economica e politica (lasciamo perdere le altre), diventasse a più riprese presidente del Consiglio. E qui le cose parlano per conto loro. Non solo nulla dei suoi programmi è stato realizzato – e questo agli avversari può far piacere – ma in trent’anni un vero e proprio strutturale indebolimento del sistema Paese è andato avanti senza che nessuno si confrontasse seriamente con le sue cause.

Esse risiedevano e risiedono nell’assetto istituzionale, nel centralismo burocratico dominante, nella resa incondizionata all’ideologia neo-liberista. Una cultura come quella berlusconiana non aveva alcun mezzo per contrastare la crisi dello Stato sociale e il moltiplicarsi delle disuguaglianze. Ma la débacle di Berlusconi statista è la stessa di tutto il ceto politico degli ultimi trent’anni, incapace non solo di innovare, ma anche di conservare ciò che di buono socialmente e culturalmente aveva prodotto la prima Repubblica.

Questi “conti” con Berlusconi si sono già fatti e chiusi più di dieci anni fa. Ripetiamoli oggi, porgendo le nostre sincere condoglianze a tutti i suoi famigliari. L’impotenza del modello berlusconiano nell’affrontare la crisi economica e politica è stata messa a nudo da tempo – e così tutta la fragilità del partito-non-partito Forza Italia. Ma a nudo da tempo è emersa pure l’assenza di valide alternative. La fine anche “fisica” di un’epoca sarà l’occasione perché queste inizino a profilarsi, sia “a destra” sia “a sinistra”? Restiamo aggrappati a questa speranza.

Rimontare sarà duro, perché il berlusconismo ha segnato profondamente un modo di pensare la politica, prima ancora che di farla. O, meglio, un modo di destrutturare la forma politica, del discorso politico. Esso deve ridursi a immagine immediatamente “sensibile”, segnale rapido in grado di colpire, impressionare e orientare a un altrettanto rapido consumo. Immaginazione e pathos al posto di discussione, ragionamento. Ricerca dell’effetto invece che delle cause. E altrettanto le organizzazioni, le strutture attraverso cui la politica si esprime andrebbero smantellate. L’ideale berlusconiano non sarebbe stata una riforma anti-centralistica dello Stato, puntando su Autonomie e nuove Regioni, ma piuttosto una generale privatizzazione di funzioni pubbliche, uno Stato minimo.

Questo è il filo rosso che connette i diversi aspetti dell’attività di Berlusconi, e in questo egli certo è immagine forte della sua epoca, un’epoca che viene da lontano e che certo non è destinata a finire con lui.