Il populismo, l’insofferenza per le regole e soprattutto l’enorme conflitto di interessi. Le denunce de L’Espresso in una campagna iniziata subito e che guardava lontano

Per ospitarle tutte, in una delle sale del Vittoriano dov’era allestita la grande mostra fotografica sui sessant’anni di questo giornale, fu necessario tirare su un enorme pannello, qualcosa di simile a un mega cartellone pubblicitario, di quelli che si vedono oggi sulle pareti di certi palazzi. Erano oltre cento. Cento e più copertine de L’Espresso. E un solo protagonista, lui, Silvio Berlusconi. La maggior parte concentrate nei primi anni della “discesa in campo”, più meno una ogni quindici giorni: sorrideva nelle foto, ghignava nelle caricature, irrideva i grandi del mondo, da questi clamorosamente sbeffeggiato.

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Messe assieme l’una accanto all’altra trasmettevano un che di ossessivo, ma rendevano assai bene il senso della lunga, talvolta solitaria battaglia de L’Espresso contro il Cav., la sua politica, i suoi affari, i suoi comportamenti, la sua visione del mondo. L’impatto era notevole. Come in un grande collage, era rappresentata un’intera stagione politica che aveva cambiato, spesso in peggio, la biografia della nazione: ecco le ville dorate, gli amori e le mazzette, le ragazze facili, le allegre combriccole in barca, la fiera delle vanità, gli affari esaltati e quelli più oscuri. E una galleria di ambigui personaggi: Mangano, Dell’Utri, Previti...

Da fuori ci accusavano di “accanimento giornalistico”, rimprovero diffuso e frequente sia da destra che da sinistra. Una “fissazione”, coniugata per di più a previsioni puntualmente smentite: una decina di copertine, infatti, si ostinavano a dare Silvio sull’orlo di una crisi di nervi, magari finito, esaurito, battuto per sempre. E invece no, il berlusconismo, con la sua carica di «populismo scientifico» - come lo chiamava Claudio Rinaldi già a metà degli anni Novanta, dunque con grande anticipo sui tempi - era entrato nella pelle di milioni di italiani, o forse più semplicemente, più realisticamente, aveva esaltato e legittimato dati del carattere nazionale a lungo repressi, o nascosti, o autocensurati.

Ora che Berlusconi non c’è più e il buio della morte imporrebbe sobrietà e rispetto, quelle copertine ci guardano, affollano la nostra memoria, ci interrogano ancora: quella contro il Caimano (copyright Franco Cordero) fu una campagna giusta, sbagliata, controproducente? Per chi vi ha partecipato è arduo un giudizio netto e condivisibile, ma di quegli avvenimenti certo non si può cancellare la memoria, e forse è utile oggi ricostruirne il senso profondo. Insomma, che cosa rimproverava L’Espresso a Berlusconi & C.? La natura stessa del suo ingresso in politica, si potrebbe riassumere.

SPECIALE BERLUSCONI

Tanto per cominciare, era avvolta nel mistero l’origine stessa degli ingenti capitali che gli avevano permesso prima la scalata immobiliare e poi i massicci investimenti per lanciare il colosso Fininvest. Si diceva, anzi, che proprio i troppi debiti accumulati, e dunque la necessità di mettere al sicuro le sue aziende, lo avessero convinto a fare il grande passo. Fin dall’inizio, dunque, Berlusconi era imbrigliato da un colossale conflitto di interessi, che con i principi liberali invocati a gran voce aveva davvero poco a che fare: peraltro la sua stessa creatura politica, Forza Italia, era nata da una costola di Publitalia, l’azienda che raccoglieva la pubblicità per le sue reti tv, anzi era stato proprio “L’Espresso” a scoprirlo andando un giorno a curiosare in uno dei meeting della concessionaria. Un’anomalia clamorosa, implacabilmente ricordata ancora oggi dalla grande stampa straniera che lo ha salutato per l’ultima volta celebrando in lui il coraggioso imprenditore, il geniale papà della nuova destra italiana, il fautore dell’alternanza destra-sinistra, sì, ma anche denunciando il tycoon dall’intollerabile concentrazione di potere.

S’era convinto, e questo è stato uno dei suoi massimi limiti, che governare fosse come guidare un’azienda, magari senza i controlli della Corte costituzionale, i sospetti dei magistrati, il ruolo del Parlamento, le domande dei giornalisti. E che in politica estera, come con Gheddafi e Putin, bastasse dunque il rapporto personale, la pacca sulla spalle, le battute e il sorriso che sfoggiava per convincere gli imprenditori ad acquistare spazi pubblicitari sulle reti Fininvest.

L’Espresso gli rimproverava poi d’essersi alleato con gli eredi di Almirante («Se fossi a Roma voterei Fini», 1993) senza chiedere loro un’abiura del passato e una convincente condivisione dei principi costituzionali: questione non ancora chiusa, come abbiamo visto, ai tempi di Meloni e La Russa. Né L’Espresso apprezzava che la sua condotta finisse per sdoganare brutti vizi italici come una certa furbizia, l’individualismo sfrenato, la violazione delle regole comuni in nome degli interessi personali, il disprezzo per la politica e per il Parlamento, l’infedeltà fiscale («È moralmente accettabile non pagare le tasse», sentenziò). Si diffondeva l’idea, ben sintetizzata da Dacia Maraini, che tutto si potesse comprare: i giudici, la finanza, i parlamentari, le leggi per sé e per i suoi cari. Molti si convinsero che senza tasse e senza regole potevano diventare un giorno come il loro leader.

Quando la magistratura cominciò a indagare sulle sue aziende, la riforma della giustizia, indispensabile per il Paese e anche per lui, fu accantonata in favore delle leggi ad personam e della guerra contro la politicizzazione dei pm, accusa che in realtà finì per acuire il fenomeno. Salvo poi il tentativo, fallito, di portare con sé al governo i suoi «persecutori» Antonio Di Pietro (agli Interni) e Piercamillo Davigo (alla Giustizia).

Per di più quelle copertine, e gli editoriali che le accompagnavano, testimoniavano che Berlusconi già prima di entrare in politica aveva goduto «di una libertà straordinaria irripetibile: di usare i governi contro i pretori; di sfruttare le amicizie politiche per farsi largo all’estero; di indebitarsi fino al collo nella beata indifferenza dei banchieri; di tenersi il Giornale anche quando il Parlamento gli ha ordinato di cederlo, di fare televisione eludendo le leggi» (Rinaldi). Nel luglio del ’90, pur di ottenere il sì del Parlamento, il governo Andreotti aveva posto la fiducia sul riassetto del sistema radiotelevisivo che lasciava campo libero alla Fininvest: per protesta, si erano dimessi cinque ministri della sinistra Dc, tra i quali Sergio Mattarella. Forse anche questi avvenimenti spiegano la “discesa in campo” di Berlusconi, e anche le preoccupazioni de L’Espresso.

Poco si capirebbe però di quegli anni, e delle 102 copertine che li raccontano, se si dimentica che quella campagna era destinata però anche a un altro interlocutore. A una sinistra che faticava a comprendere il nuovo fenomeno Berlusconi, che si ostinava a reagire con un lessico obsoleto, divisa in nove (o undici?) partiti e paralizzata da due opposti estremismi: da una parte il rifiuto morale, antropologico di Berlusconi; dall’altra la tentazione di arrivare a patti con l’avversario che, come poi si è visto, non ne aveva alcuna intenzione. Era la sindrome Dalemoni, come titolava una storica copertina e spiegava mirabilmente Giampaolo Pansa in un suo “Bestiario”.

Da allora resta comunque aperta una domanda: se il populismo, introdotto proprio dal Cav. e poi dilagato a destra e a sinistra, sia da attribuire alla prosecuzione del berlusconismo in altre forme o all’incapacità della sinistra ufficiale di comprendere il suo avversario e di contrastarlo davvero con progetti, idee, visione del mondo e del paese. Magari con una legge sul conflitto di interessi. Ma questo, se volete è tutto un altro discorso. O lo stesso?