Figlio e nipote di mafioso si ribellò alla sua famiglia di sangue. A 45 anni dall’uccisione del militante di Dp la storia di un’esperienza politica esemplare. In un libro il ricordo dei compagni, un ritratto autentico fuori dagli stereotipi

Brutto affare quando la memoria non è che una maglietta. Ristretta dallo stress dei continui lavaggi. La tirano sul davanti esibendo la retorica mentre un refolo di verità gli gela la schiena. Da 45 anni, ormai, nell’ultimo ventennio soprattutto, accade più o meno questo con il ricordo, meglio sarebbe dire i ricordi, di Peppino Impastato, il militante demoproletario, giornalista e consigliere comunale, post mortem, ucciso dalla mafia di Gaetano Badalamenti, sulla ferrovia di Cinisi (Palermo) il 9 maggio del 1978.

Già il giorno esatto del delitto è stato per lungo tempo un favore alla rimozione. Quella, per la grande storia, è la data del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, lo statista, presidente della Democrazia Cristiana, assassinato dalle Brigate rosse dopo 55 giorni di prigionia. E la coincidenza di calendario è stato un inatteso dono per relegare la storia di un assassinio politico-mafioso nel cono d’ombra di un’immane tragedia nazionale.

Impastato, dissero i carabinieri e la procura avallò lesta, era morto nel tentativo maldestro di piazzare un ordigno sui binari: un bombarolo di provincia, in preda ad astratti furori ideologici, vittima del proprio lavoro sporco. Fu necessaria questa messinscena per proteggere movente e mandante. Sebbene tutto - i reperti, i resti, le condizioni del corpo, i testimoni mai ascoltati - cospirasse a smascherare la menzogna, funzionò. E in parte funziona ancora. Anche adesso che giustizia è fatta.

 

Ma sul delitto e non certo sul depistaggio che ha mandato a vuoto per lustri la macchina della verità. Si deve all’ostinazione dei familiari di Impastato, dei compagni, di Umberto Santino e di Anna Puglisi, la sterzata impressa alle indagini che da Rocco Chinnici ad Antonino Caponnetto, fino all’accusa sostenuta in aula da Franca Imbergamo, portò tra il 2001 e il 2002 alla condanna di Badalamenti e del suo gregario Vito Palazzolo. E sono loro a non rassegnarsi ancora di fronte al galleggiare nell’indistinto dell’indicibile, tra le stanze della procura e quelle della commissione parlamentare antimafia, delle complicità che resero facile la lunga impunità del boss.

 

Per loro, Impastato è un caso ancora aperto. A dispetto di chi, senza troppe domande, vorrebbe congelarne il ricordo dentro un rassicurante santino dell’antimafia di maniera. Frasi fatte che nulla dicono della complessità dell’uomo. E soprattutto della straordinaria, esemplare, parabola: figlio e nipote di mafiosi che rompe con la famiglia di sangue - «caso unico», dice Umberto Santino - che trascina nella radicale trasformazione la madre e il fratello e contagia un’intera generazione, la stessa che aveva condiviso in uno sforzo autenticamente collettivo le battaglie politiche per la casa, l’acqua, contro l’esproprio delle terre per l’aeroporto e lo sfruttamento dei manovali nell’eldorado edilizio da seconde case che era diventato quel lembo di costa.

 

Molti dei compagni di lotta si ritrovano a rievocare quei giorni di impegno nel Psiup e in Lotta Continua, da ultimo in Dp, ma anche le divaricazioni, i tentennamenti e le ipocrisie del Pci, in un racconto corale, curato da Pino Manzella, il pittore autore di molte delle immagini che accompagnano la storia della resistenza civile di quel movimento e il percorso successivo all’omicidio.

 

Il libro “Peppino Impastato. La memoria difficile”, edito da Guerini e associati, tiene insieme, spiega Manzella, «i pezzi di un puzzle che, incastrati uno accanto all’altro, ci consegnano un ritratto di Peppino dalle diverse sfaccettature ma lontano dallo stereotipo dell’eroe che in questi anni gli è stato cucito addosso. E il fatto che molti ricordi coincidano nella memoria dei compagni e degli amici ci dà la consapevolezza di essere molto vicini al vero Peppino». Leader suo malgrado, compagno tra i compagni, animato da una vitalità irrefrenabile, aperto al confronto, gioviale, scherzoso, istrionico quanto rigoroso nell’impegno. Fantasioso nell’azione e nella denuncia ma concreto e puntuale nella denuncia.

Dal circolo di Musica e Cultura a Radio Aut, c’è il ritratto di un uomo votato alla dimensione politica in cui la mafia non è che uno dei volti del potere che fa rima con oppressione, negazione di futuro e di opportunità.

 

 

Il libro è il mezzo attraverso il quale si regolano conti di memoria su protagonismi e snodi, si correggono alcune storture entrate nell’immaginario collettivo ma è pure lo strumento con il quale molti dei compagni spiegano con il pudore, e se ne rammaricano, l’assenza di parole, il silenzio, di questi anni. Ritrosie e casi della vita che hanno portato tanti lontano ma con un bagaglio di consapevolezze maturate in quella stagione. Di Cinisi, specchio di un’Italia incline al compromesso, dicono non sia tuttora immune da una mafiosità diffusa. Anche per quel pezzo di società Peppino Impastato è un caso aperto. E non soltanto uno slogan su una t-shirt.