La storia d’Italia dal Dopoguerra a oggi insegna che per realizzare i progetti occorre centralizzare gli interventi. E monitorare i processi di spesa. Assicurando che le risorse arrivino anche al Sud

La continua polemica sullo stato di attuazione dei progetti finanziati con i fondi provenienti dell’Unione europea nel quadro del Pnrr, specie nel Mezzogiorno, continua a tenere banco e ad avvelenare i rapporti all’interno delle amministrazioni dello Stato e con la Corte dei Conti. Ancora più sterili sono le discussioni sui rimbalzi di responsabilità tra l’attuale governo, che ha recepito i progetti, e l’Esecutivo precedente, che li ha predisposti, come sulla necessità di dover gestire delle situazioni che possono essere considerate, in alcuni casi e per certi versi, pregiudicate irreversibilmente dal passare del tempo. In realtà, si tratta della cronaca di un disastro annunciato. Era a tutti noto quanto, negli ultimi 40 anni, alcune realtà istituzionali siano state incapaci di realizzare progetti finanziati dall’Unione europea.

 

Orbene, come si legge nella «piramide degli errori» di Herbert William Heinrich, un incidente è solamente la punta di una serie molto più numerosa di errori ed eventi anomali che hanno concorso nel tempo a danneggiare il sistema. Questo sta a indicare che per ogni incidente ci sono stati migliaia di piccoli segnali che lo potevano preannunciare. A questo punto, vi sono due modi diversi e opposti di affrontare il problema che rispecchiano la natura più o meno resiliente di un Paese.

 

L’organizzazione basata sulla «cultura della colpa» è caratterizzata da un velo che oscura i rischi e gli eventi anomali manifestatisi nel tempo, lasciando scoperti solamente gli episodi più gravi; è quindi un sistema che agisce soltanto quando l’incidente è avvenuto, ricercando i colpevoli. Al contrario, un Paese resiliente toglie il velo e vede con limpidità tutta la piramide degli eventi che hanno concorso a danneggiare il sistema, arrivando alla base e sanando non solo quelli anomali, ma anche quelli che potrebbero diventarlo.

 

Questa doveva essere la recovery vision, specie per il Mezzogiorno. Il modello esisteva ed era quello realizzato nel Dopoguerra sulla base di un paradigma sperimentale con al centro la Banca mondiale e le politiche di sviluppo internazionali, allo scopo di predisporre i programmi, i finanziamenti e l’esecuzione di opere straordinarie funzionali al progresso economico e sociale. L’intervento fu modellato sul New Deal, ossia il piano promosso dal presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt per risollevare il Paese nel 1929 e sfociato nell’iniziativa della Tennessee Valley Authority, un’agenzia federale centralista, vista l’incapacità periferica nella gestione della crisi. E la Cassa per il Mezzogiorno fu, perciò, concepita come un ente pubblico dotato di forte autonomia con funzioni centralizzate.

 

L’Italia, in quel periodo, è riuscita a realizzare una doppia convergenza sistemica, interna ed esterna, soprattutto tra Nord e Sud. Il turnaround economico nella Golden Age è stato impressionante, gli investimenti industriali nel Mezzogiorno sono cresciuti di due volte e mezzo e il tasso di crescita del Pil è stato costantemente superiore di due punti percentuali rispetto alla media del Paese. Il sorpasso dei ritmi del Sud rispetto a quelli del resto del Paese era avvenuto in corsa durante un ciclo espansivo, quando solitamente le distanze si allungano, e aveva consolidato nella reciprocità e nella convergenza l’intero sistema economico nazionale. L’intervento straordinario ha realizzato investimenti proprio per 200 miliardi di euro circa (ai valori di oggi) e ha prodotto 16 mila chilometri di strade, 23 mila di acquedotti, 40 mila di reti elettriche, 1.600 scuole, 165 ospedali. Numeri oggi improponibili!

 

La grande spinta alla crescita realizzata attraverso gli ingenti investimenti infrastrutturali e produttivi non fu completata, specie per il subentro delle Regioni e, appunto, l’avvio degli interventi a pioggia. Negli anni Settanta si diffuse, infatti, una strategia improduttiva, fondata sulla crescita locale non sistemica, con l’impiego delle risorse secondo lo schema della «pentola bucata», come definito dagli osservatori internazionali: basti pensare all’utilizzo parziale e privo di una strategia unitaria dei fondi europei. La devoluzione di poteri a livello locale senza che vi fossero adeguate competenze, i localismi, le clientele, l’intermediazione impropria anche ambientale hanno interrotto il miracolo italiano. Questo errore del localismo è adesso, nella sostanza, il vero problema. E la centralizzazione degli interventi nella prima fase di attuazione del Pnrr ha funzionato proprio per la stessa evidente ragione.

 

Vero è che purtroppo il localismo esiste, ma occorre trovare immediatamente il modo di centralizzare gli interventi. Semmai istituendo coordinamenti di più Regioni che organizzino “uffici unici” specializzati, in virtù dello strumento esistente, ma inutilizzato, della cooperazione rafforzata ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione. Invece di fare polemiche vanno subito costituiti centri di competenza territoriale, formati da specialisti in progettazione e attuazione delle politiche di sviluppo, anche in raccordo con le università presenti sul territorio, in grado di supportare le amministrazioni locali. Al tempo stesso bisogna predisporre strumenti di monitoraggio in itinere dei processi di spesa di tutti i livelli di governo, in modo che le amministrazioni centrali assicurino, in sede di definizione delle procedure di attuazione degli interventi, l’allocazione alle Regioni meridionali delle risorse. E la «perequazione infrastrutturale» di queste risorse deve riguardare anche gli investimenti delle grandi imprese pubbliche, di quelle poche rimaste dopo l’altro grande disastro italiano delle cosiddette privatizzazioni.