Schedato da anni come “allagabile” il 45 per cento del territorio regionale, dove vivono tre abitanti su cinque. Ma la cementificazione continua, come in tutta Italia. E il cambiamento climatico aumenta i rischi di siccità con successive piogge “cicloniche”

Due alluvioni disastrose in meno di quindici giorni, con troppe vittime e migliaia di sfollati, in una regione ad altissimo rischio idrogeologico. Le tragiche inondazioni che hanno colpito l'Emilia Romagna, all’inizio di maggio e poi in questi giorni, hanno avuto come cause scatenanti due ondate di piogge senza dubbio eccezionali, per intensità e durata. Ma in questa, come in altre regioni italiane, i disastri idrogeologici non si possono considerare eventi imprevedibili. Sono amplificati e aggravati da anni dl malgoverno del territorio.

 

Quasi metà dell'intera superficie dell'Emilia Romagna è da tempo classificata dagli esperti come «allagabile». Poco meno del 10 per cento della popolazione vive in aree esposte a un rischio «elevato» di inondazioni. Le zone a «media pericolosità di alluvioni» coprono oltre il 45 per cento del territorio, dove vive più del 60 per cento della popolazione. Sono dati ufficiali, aggiornati ogni anno dai tecnici dell'Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (Ispra). L'ultimo rapporto datato 2022 segnala che nella provincia di Ferrara è a rischio medio o alto di allagamenti quasi il 100 per cento del territorio, in quella di Ravenna l'80 per cento. Anche a Modena e Bologna più di metà dei residenti abitano in case costruite in aree già schedate come «allagabili». Tra Forlì e Cesena la popolazione esposta a un livello di rischio «medio o alto» sale al 64 per cento.

 

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I rischi di dissesto idrogeologico sono aggravati dagli effetti disastrosi del cambiamento climatico, che provoca in tutto il mondo eventi estremi sempre più gravi e ravvicinati, anche di segno opposto. L'attuale ondata di alluvioni in Emilia è iniziata nella notte del primo maggio scorso, dopo quattro mesi di siccità straordinaria. Dall'1 al 4 maggio la prima ondata di forti precipitazioni ha colpito tutta la regione, con accumuli di piogge per oltre 200 millimetri in sole 48 ore in particolare tra Bologna, Forlì e Cesena. Sono state le piogge più intense registrate nella regione dal 1961 fino a quei giorni. Già quella prima alluvione ha provocato anche una serie di frane e smottamenti, con una prima vittima per il crollo di una casa tra Fontanelice e Casola Valsenio.

 

La seconda ondata alluvionale, iniziata nella notte del 15 e proseguita senza interruzioni fino al 17 maggio, ha avuto effetti ancora più gravi, provocando l’esondazione di 21 fiumi e vastissimi allagamenti in 42 comuni. Sulle colline di Forlì si sono abbattuti 300 millimetri di pioggia, tra i 150 e i 200 nel Bolognese. In quei tre giorni le prefetture emiliane hanno registrato altre tredici vittime (ma il bilancio finale rischia purtroppo di aggravarsi ancora con il passare delle ore) e oltre 13 mila evacuati e sfollati. E l'emergenza maltempo continua, con una nuova allerta rossa dichiarata dalle autorità per il fine settimana.

 

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Un grafico, pubblicato sempre dall'Ispra, quantifica i diversi carichi di pioggia che si sono rovesciati sull'Italia nelle 24 ore di martedì 16 maggio, evidenziando una sorta di effetto-ciclone, con la Romagna al centro. Tra i fattori naturali che hanno aggravato i danni, secondo gli esperti, c'è il forte vento di bora che ha colpito le coste della Romagna e delle Marche: le mareggiate hanno innalzato di circa mezzo metro il livello medio del mare, ostacolando il deflusso delle acque dei fiumi. Tra le cause strutturali, c'è l'abnorme consumo di suolo: anche in Emilia Romagna, come in gran parte dell'Italia, sono state costruite decine di migliaia di abitazioni in aree a rischio di frane e alluvioni.

 

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In tutta Italia, negli ultimi 15 anni, si contano a migliaia le località colpite dalle frane e alluvioni più disastrose, quelle «improvvise, rapidissime e a elevata distruttività», come le classificano gli esperti dell'Ispra. Il dissesto idrogeologico è una cronica emergenza nazionale, che con il cambiamento climatico diventa sempre più grave. L'Italia è per natura una nazione ad alto rischio di smottamenti (con più di un quarto del totale delle frane censite in Europa), inondazioni, terremoti, erosioni costiere, eruzioni vulcaniche, ma da più di mezzo secolo è anche la più devastata dalla speculazione edilizia.

 

Dal 1971 al 2021 frane e alluvioni hanno provocato 1.630 morti accertati, 48 dispersi, 1.871 feriti, oltre 320 mila senzatetto. Eppure nel nostro Paese si continua a cementificare, ogni anno, più di 60 chilometri quadrati di campagne, prati, boschi, sponde dei fiumi e coste dei mari. Una crosta artificiale di asfalto e calcestruzzo, impermeabile, che cancella le difese naturali e favorisce il dissesto.

 

«Si continua a costruire in tutte le regioni perfino su terreni censiti ufficialmente come pericolosi», denuncia il professor Paolo Pileri, che insegna pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. «L'Ispra pubblica sul sito Ecoatlante le mappe dettagliate di tutte le aree di rischio, con i diversi gradi di pericolosità per frane, alluvioni, terremoti e altro. Ma troppi enti locali ignorano questi dati e autorizzano nuove opere che aggravano il dissesto. Poi, dopo i disastri, si contano le vittime. Di questi problemi dovremmo ragionare prima, non piangere dopo».

 

E cosa si potrebbe fare subito? «Basterebbe applicare in tutta Italia una regola semplice: nelle aree a rischio, il consumo di suolo dev'essere zero. In tutti i Paesi più civili nessuno può costruire niente su terreni pericolosi», risponde il professor Pileri, che precisa: «Le questioni ambientali sono di una scala di grandezza tale da non essere più gestibile dal singolo ente locale. Per questo sono fondamentali istituti come l'Ispra. Occorre un'autorità centrale, un organo tecnico qualificato e indipendente, per censire e perimetrare tutte le zone a rischio e quindi imporre vincoli assoluti, inderogabili in tutto il territorio nazionale».