Tra gli obiettivi finanziati c’è l’incremento del patrimonio arboreo delle maggiori città italiane. Perché il verde aiuta a ripulire l’aria, assorbendo le emissioni di CO2, e a mitigare la crisi climatica. Ma serve una strategia nazionale e una pianificazione unica

Una prima tranche di 1,65 milioni di alberi (su un obiettivo totale di 6,6 milioni da raggiungere entro il 2024) da mettere a dimora nelle maggiori città italiane, per uno stanziamento di circa 300 milioni di euro nell’ambito del Pnrr. Questa la vicenda su cui la Corte dei Conti – con una delibera del collegio del controllo concomitante (istituito appositamente per verificare, in corso d’opera, le eventuali criticità attuative del Piano) – ha nei giorni scorsi sollevato dubbi riguardo all’effettiva realizzazione da parte delle Città metropolitane della specifica misura tesa a incrementare il loro patrimonio arboreo. Il punto è delicato perché si tratta di uno dei 55 obiettivi collegati alla terza rata (complessivamente 19 miliardi) ancora sotto esame dell’Ue.

I rilievi avanzati dalla magistratura contabile offrono l’occasione per comprendere meglio le ragioni per investire, oggi, sulle politiche del verde urbano. Perché è lì, nelle conurbazioni maggiori, che c’è appunto bisogno di verde. Diversamente da come potrebbe a prima vista sembrare, creare al loro interno aree alberate non è cosa che si limita ad appagare l’occhio, ma produce – se calata all’interno di un disegno strategico, che parta da assunti precisi – effetti di lungo periodo.

Nel concreto, basta prendere le mosse dai dati dell’Agenzia europea dell’Ambiente: l’inquinamento atmosferico, nel 2019, ha causato in Italia la morte prematura di circa 60 mila persone, 165 in media ogni giorno. Il tema è quello della qualità dell’aria (specie in alcune aree del Paese) che innesca, fra l’altro, aumento della spesa sanitaria, esposizione al serio rischio di forti sanzioni Ue e anche pesanti ripercussioni (blocco della circolazione veicolare ecc.) sulla vita quotidiana di cittadini e imprese. Certamente, le politiche di forestazione urbana non sono da sole sufficienti a risolvere il problema nei centri maggiori. Tuttavia sarebbe un errore sottovalutare il contributo che esse possono dare, sia a questo riguardo sia per mitigare gli effetti di temperature che si fanno sempre più elevate (cosiddette isole di calore).

Non esiste, probabilmente, un sistema produttivo più efficiente e a basso costo di un albero per ottenere certi risultati. Secondo gli esperti, in particolare, se nel nostro Paese una persona emette in media 5,5 tonnellate di CO2 equivalente l’anno (il valore varia notevolmente a seconda dello stile di vita di ciascuno), un albero ne immagazzina circa 167 chilogrammi l’anno o una tonnellata nel caso di sei alberi adulti. In buona sostanza, circa 33 alberi dovrebbero essere piantati ogni anno per compensare le emissioni di ciascun italiano.

A livello planetario, si stima che le principali 25 metropoli mondiali siano responsabili di oltre il 50 per cento delle emissioni complessive di CO2. Per effetto della loro capacità di catturare e immagazzinare anidride carbonica, attraverso la fotosintesi, gli alberi sono uno strumento formidabile per rallentare il fenomeno conseguente del riscaldamento globale. Accanto alla riduzione delle emissioni, anche nei documenti internazionali si dà del resto risalto al loro assorbimento.

Accrescere il patrimonio arboreo delle maggiori città è necessario, non semplice. Ma non è impossibile. Serve una strategia che metta in un disegno unico, a scala di Paese, azioni (da programmare e organizzare sulla base delle migliori evidenze scientifiche), finanza pubblica (calcolando il risparmio di spesa statale perseguibile in termini di ridotta morbilità e mortalità) e privata (dalle politiche Esg delle società quotate alla filantropia).

Occorre non cadere nell’equivoco di soluzioni affrettate che soluzioni non sono: aggiungere alberi alla «città esistente» (nelle sue destinazioni attuali area per area, lasciando cioè tutto invariato) non è la ricetta. Ampi spazi da tempo abbandonati, consegnati a un consumo di suolo che continua per pura forza d’inerzia, senza spesso neppure un’utilità reale per alcuno, e che andrebbero invece riutilizzati per interventi di forestazione urbana. Poi, le tante aree intercluse della rete viaria cittadina (rotatorie, complanari). Per non dire del controverso tema delle sostituzioni degli alberi a fine ciclo (per citare il solo caso di Roma, circa 80 mila alberi di taglia grande – sugli oltre 300 mila che compongono il patrimonio arboreo della Capitale – per circa due terzi considerati a rischio). E molto altro ancora.

Aggregare le forze è indispensabile. Esempio importante, in questa direzione, è Forestami, un progetto di partenariato pubblico-privato che parte da Milano (culla della legge 10/2013, dedicata proprio agli spazi verdi urbani) sotto la guida di Stefano Boeri. Ma non mancano iniziative promosse dalle grandi società, anche del settore energetico e di quello energivoro. Così Arbolia, ideata pochi anni fa da Snam e Fondazione Cassa Depositi e Prestiti, è una società benefit creata per sviluppare aree verdi nelle città e nei territori italiani. Ma anche Boschi E.On, progetto di forestazione realizzato da una multinazionale privata con più di 11 anni di impegno all’attivo (ha realizzato in Italia 46 boschi, per un’area estesa 62 volte piazza del Duomo a Milano). E ancora l’Oasi Zegna, con il Bosco del sorriso, le cui origini risalgono al 1930, quando Ermenegildo Zegna progettò e finanziò un’opera di riforestazione delle montagne a ridosso del suo lanificio.

Si può fare, insomma. Occorre con pazienza tessere la tela di una strategia nazionale che crei anche lavoro e sbocchi di mercato alle eccellenze del florovivaismo.