La rivoluzione tecnologica riduce la necessità di occupati. È un’occasione da cogliere per svincolare il valore della persona dal mercato. Non è utopia. Ecco come si può fare

1°Maggio, giornata del lavoro. E dei milioni di precari, sotto-occupati, disoccupati. Repubblica fondata sul lavoro. Quale lavoro? Fino a quando non ci porremo con sobrietà e disincanto questa domanda la retorica più frustra continuerà a imperversare. Mai lo sviluppo economico-tecnologico ha prodotto una riduzione del lavoro necessario più drammaticamente rapida e intensa. Ciò è nella natura del sistema di produzione sociale che domina ormai il pianeta e che chiamiamo capitalismo - e tuttavia oggi essa si manifesta, almeno in Occidente, con tratti qualitativamente nuovi e con effetti sociali dirompenti. Il flusso innovativo, il salto tecnologico e organizzativo, attraverso momenti di crisi, tendevano in passato a sostituire vecchie forme di lavoro con altre altrettanto di massa. Così è stato nel passaggio tra primario e grande industria manifatturiera, e ancora tra questa e i nuovi settori del terziario. L’innovazione oggi funziona riducendo ovunque sistematicamente e massicciamente il bisogno di forza-lavoro. Gli stessi servizi alla persona sono coinvolti nel processo, basti pensare agli effetti che già si stanno verificando nella sanità o nella formazione. L’idolatria per digitalizzazione, on line, robotica, intelligenza artificiale (idolatria che è l’opposto di una esatta valutazione delle loro straordinarie potenzialità liberatorie, come vedremo subito) insieme all’ideologia della perfetta sostituibilità della comunicazione con la semplice informazione, sembrano oggi rendere queste tendenze complessive del nostro “modello di sviluppo” anche culturalmente inarrestabili. Il salto tecnologico, inoltre, poteva produrre in passato nuove polarizzazioni di classe. Oggi non hai che un polo egemone, per quanto possa al suo interno presentare elementi di fortissima competizione e anche di contraddizione - dall’altra parte hai una moltitudine di individui, che erogano il proprio lavoro come tali, senza alcuna capacità di dar vita a forme di solidarietà e organizzazione. Da un lato gli addetti al Sistema, dall’apparato tecnico-scientifico connesso al potere economico, politico e militare, ai cosiddetti “creativi” a vario titolo (e “creativi” nel nostro Paese sono senza dubbio anche le legioni degli evasori) - dall’altro, non la plebe (come si dice erroneamente, poiché la plebe è concetto giuridico e politico), ma una moltitudine di precari, oscillante tra lavoro dipendente incerto, fasi più o meno lunghe di disoccupazione, ricerca affannosa di impiego, percorsi di riqualificazione.

È tempo, penso, di prendere il toro per le corna. Arrestare il processo è impossibile. Lo potrebbe soltanto un’apocalisse politica globale. Frenarlo, contenerlo è affare miope, anche se a volte misericordioso. Non resta che una strada positiva, propositiva, non reazionaria e niente affatto fantastica. Lo sviluppo di cui abbiamo parlato ha generato e continua a generare grandi ricchezze. Ma di per sé esso produce squilibri di ogni genere e intollerabili ingiustizie. Assurdo elemosinare lavoro - è l’uso di questa ricchezza che occorre saper contrattare e indirizzare. La Repubblica è fondata sulla dignità dell’uomo, non sul fatto che egli debba per forza esercitare un lavoro per cui riceva un reddito sufficiente a vivere. Lavoro, sarebbe bene ricordarlo, non è un termine “felice” (labor ha la stessa radice di labeo, cado, non mi reggo, sono a terra) - e altrettanto poco lo è “occupazione” (perché dovrei essere un “occupato”? sono forse una cittadella conquistata dal nemico? Mi ha sconfitto qualcuno?). La mia dignità consiste nel poter svolgere un’attività, nell’essere causa attiva nel campo che avverto come mia professione. La Repubblica deve operare per il fine che tutti siano posti nella condizione di esercitare liberamente l’attività per la quale si sentono vocati. La dignità della persona non può dipendere dal suo essere-al-lavoro. La ricchezza prodotta, che è sempre un prodotto sociale, della interrelazione tra gruppi sociali, deve poter garantire a ciascuno secondo i suoi bisogni, a prescindere dal suo essere-occupato. Ognuno deve potersi sentire attivo e libero, e partecipe alla produzione di ricchezza sociale, anche se non riesce, per una fase o per sempre, a collocarsi nel mercato (altro termine davvero bestiale!) del lavoro, così come attualmente si configura. Anche standone fuori, momentaneamente o meno, si possono elaborare proprie idee, formare progetti con altri, scoprire proprie capacità, senza doversi sentire delusi, frustrati, emarginati. E magari accrescere la potenza del cervello sociale, secondo prospettive imprevedibili. È un’etica del lavoro paleo-borghese, cupamente disciplinare, quella che fa sostanzialmente dipendere il valore di una persona dalla retribuzione che è in grado di ottenere. Il valore della mia attività va liberato dal riconoscimento di cui essa gode sul mercato. La politica sappia mettere a disposizione i mezzi affinché l’intelligenza di ciascuno possa vivere e operare liberamente.

Si tratta di utopia? Niente affatto - è una prospettiva resa concretamente possibile dallo sviluppo delle forze produttive, dall’inserimento onnipervasivo delle nuove tecnologie in tutti i settori di attività. O saremo capaci di questa piccola rivoluzione culturale intorno all’idea di lavoro e poi a trarne le necessarie conseguenze pratiche e politiche, oppure rassegniamoci a miriadi di battaglie di retroguardia, impotenti testimoni di uno sviluppo che moltiplica le disuguaglianze e distrugge ogni forma di comunità.

La mia dignità