La fusione a freddo tra culture politiche diverse non ha mai funzionato. Il partito ha seguito politiche moderate quando in tutto il mondo la sinistra ha fatto scelte radicali. Ora l’arrivo della nuova segretaria è un sasso nello stagno

Elly Schlein è la fine di un equivoco che ha accompagnato il Partito democratico fin dalla sua nascita, sedici anni fa. Doveva essere l’incontro tra due culture politiche, la democristiana e la comunista, nell’illusione che fossero compatibili, che la contrapposizione feroce dei tempi della Prima Repubblica fosse un malinteso della storia e l’unione tra quel che restava dei due movimenti di massa l’inevitabile sbocco per contrastare la deriva di destra sotto il dominio del berlusconismo imperante. Una semplificazione del quadro politico con l’obiettivo di una vocazione maggioritaria dei due poli che definisse chiaramente alle elezioni un vinto e un vincitore.

La fusione fredda, proprio perché tale, fallì quasi subito. Il partito di centro-sinistra era come l’Arlecchino servitore di due padroni che lo tiravano per la giacca finendo per lacerare le cuciture del tessuto. Né carne né pesce, un po’ di qua un po di là. I post-comunisti scontenti per qualche deriva centrista, soprattutto in materia economica, i post-democristiani critici per posizioni a loro modo di vedere sinistre quanto ai diritti civili. A peggiorare il quadro, un’ulteriore divisione, tutta interna agli eredi del Pci, tra riformisti e (un po’ più) estremisti. Ogni tanto qualcuno sbatteva la porta non sentendosi più rappresentato dalla sigla comune e se ne usciva, per cercare avventure in nuove formazioni per la verità senza troppa fortuna.

Incapace di concretizzare la chimerica “vocazione maggioritaria”, il Pd ha finito con l’essere un partito governativo o della responsabilità, la stampella su cui appoggiare esecutivi traballanti nell’eterna emergenza italiana tra crisi economiche aggravate dal mostruoso debito pubblico, crisi sanitarie come il Covid, da ultimo crisi geo-politiche come la guerra in Ucraina. Insomma: stare al governo con le idee altrui.

Tutto questo mentre in Occidente, davanti alla montante onda di destra, alla sinistra riuscivano sparute vittorie solo laddove si presentava con un programma radicale, che non significa necessariamente estremista: Zapatero e poi Sanchez in Spagna, Tsipras in Grecia, Costa in Portogallo, Obama e Biden negli Stati Uniti. In Italia no. Ci si è preoccupati piuttosto di lavare il peccato originale di essere stati comunisti fin oltre la caduta del Muro di Berlino, sposando idee liberiste, dimenticandosi delle proprie classi di riferimento e anzi regalandole alla destra, lasciando al proprio destino periferie abitate dalle classi deboli e avendo qualche soddisfazione solo dai benestanti delle Ztl.

Così, dopo il disastro elettorale di settembre, si arriva alle primarie. Da una parte Stefano Bonaccini, ottimo governatore dell’Emilia Romagna, degno erede della tradizione comunista di capaci amministratori che hanno fatto della Regione uno dei pochissimi casi al mondo di socialismo ben realizzato grazie al connubio virtuoso tra lavoratori e imprenditori. Una garanzia per gli apparati di partito, che infatti lo premiano nel voto dei circoli, e dunque percepito come rappresentante di un establishment ormai inviso al popolo più largo della sinistra: il suo errore.

Dall’altro Elly Schlein, solo 37 anni eppure una lunga militanza cominciata sui banchi di scuola. Cosmopolita fin dalle origini, tre cittadinanze, americana, svizzera e italiana, nonni ebrei lei originaria di ciò che oggi è Lituania e lui di ciò che oggi è Ucraina, e dall’altra parte, nel ramo italiano, nipote di un avvocato antifascista e senatore socialista, Agostino Viviani.

A 23 anni volontaria per la campagna elettorale di Obama, poi eurodeputata Pd e vicepresidente dell’Emilia Romagna. Troppo giovane per provare sensi di colpa legati a dottrine politiche novecentesche, disinibita al punto da dichiarare la sua bisessualità, puntigliosa nello studio dei dossier. Disinvolta nello snocciolare durante i comizi l’elenco delle priorità: lotta al precariato, salario minimo, transizione ecologica. Insomma, attenzione agli ultimi.

Un programma compiutamente di sinistra, radicale, fortemente identitario, orientato verso la difesa dei diritti di nuove generazioni destinate a campare peggio di quelle che le hanno precedute. E infatti sono i giovani che corrono al gazebo per plebiscitarla, ribaltando il risultato.

Ecco la fine dell’equivoco. Almeno nelle promesse il Pd non più un partito di centro-sinistra ma di sinistra senza trattini. La cartina di tornasole è l’uscita immediata di Beppe Fioroni, vecchio cuore democristiano che del Pd fu fondatore. Bonaccini riconosce: “Elly ha interpretato meglio il rinnovamento”. E si mette a disposizione perché la responsabilità gli sconsiglia di promuovere scissioni. Non ora che si delinea un partito molto profilato, distinguibile, quale di fatto non era mai stato. Sull’altro fronte Giorgia Meloni insegna che certe posture nette possono portare lontano anche se si parte molto bassi nei sondaggi.

In politica non è il tempo dei chiaroscuri, dei “ma anche”, delle acrobazie linguistiche. Sul mercato delle idee ricompare una formazione di sinistra di medie dimensioni da cui si sa esattamente cosa aspettarsi. È post-moderna fin dall’immagine della sua leader. “Non ci hanno visto arrivare”, ha detto la Schlein, citazione del titolo del libro della femminista americana Lisa Levenstein. Togliatti in uno dei suoi aforismi più famosi: “Veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano”. Dove arriverà la nuova segretaria del Pd, impossibile pronosticare. Di certo è un masso lanciato nell’acqua dello stagno da tempo immobile della sinistra italiana.