La grande maggioranza di chi arriva in Italia lascia il Paese verso luoghi più accoglienti e con maggiori opportunità economiche. Ma il mito caro alla destra della “sostituzione etnica” è duro a morire

Per certe questioni, non si sfugge al determinismo della geopolitica. L’Italia, adagiata com’è al centro del Mediterraneo, è stata (è) terra di transito per i terroristi come, in larga parte, per i profughi. Purtroppo non si sfugge nemmeno al dominio, in questa fase storica, delle percezione dei fenomeni sulla realtà. I migranti approdano, salutano e in grande maggioranza se ne vanno verso le loro mete a settentrione. È così, piaccia o meno, ai teorici dell’ “invasione”.

 

Siamo in epoca post-illuminista e l’unica àncora razionale sono le cifre. Che dipingono un situazione opposta a quella della vulgata corrente: anziché respingere gli stranieri dovremmo scongiurarli di venire e di fermarsi, anche per rimpiazzare i buchi demografici di una società, la nostra, invecchiata e non più in grado da sola di sostenere il modello classico dello sviluppo economico. Oltre al rispetto di principi umanitari ineludibili e radicati nella nostra cultura, è persino per egoismo che dovremmo essere accoglienti. Invece di «assistere dalla riva all’altrui naufragio» (Lucrezio), cioè, interpretando il poeta latino, godere della propria sicurezza comparandola all’insicurezza altrui.

 

È bastato che da inizio anno triplicasse il numero degli sbarchi in confronto allo stesso periodo del 2022 perché subito partissero alti lai contro il pericolo incombente della “sostituzione etnica” addirittura, tema caro alla destra sovranista, o ai perfidi intrighi dei mercenari della Wagner come denunciato dal ministro della Difesa Guido Crosetto, subito smentito dalla Commissione europea. In numeri assoluti sono poco più di ventimila in tre mesi, favoriti nel loro viaggio da un inverno clemente. Ma “triplicati!” è una moltiplicazione allarmistica che riscuote consenso in un Paese impaurito perché “delinquono”, e le cifre ufficiali dicono di un minor numero di reati commessi da stranieri rispetto al passato. O perché “rubano il lavoro agli italiani” quando gli imprenditori reclamano a gran voce il varo di un generoso decreto flussi e la fondazione “Leone Moressa” stima in un rapporto che mancano al nostro sistema produttivo 534 mila lavoratori. Non tutti assegnabili ai disoccupati italiani che, si sa, molti mestieri non li vogliono più esercitare.

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Per cercare almeno di comprendere, non giustificare, il terrore del forestiero largamente diffuso dobbiamo ragionare su un arco temporale più lungo. Nel 1990, poco più di trent’anni fa, l’Italia era ancora sostanzialmente un Paese monoetnico, solo lo 0,8 per cento della popolazione non aveva origini nella penisola. Si è balzati, ora, all’8,4 per cento, in numeri assoluti poco più di cinque milioni di persone su 60 milioni e un trend d’incremento in continua decrescita. Di questi il 52 per cento sono donne (con buona pace dell’abusata teoria della prevalenza del maschile), 3,5 milioni sono extracomunitari e 1,5 milioni arrivano da altri Stati dell’Unione europea. La Germania ne ha il doppio, 10,4 milioni (12,4 per cento sul totale abitanti), la Spagna ci precede di un soffio, 5,2 milioni (ma 11 per cento del totale), la Francia pure, 5,1 (ma con un tasso inferiore, 7,6). Se aggiungiamo l’Inghilterra, che ne ha come la Germania, dovremmo arrenderci all’evidenza e demistificare la favola del Paese più colpito dal fenomeno. Tanto più se prendiamo in esame altre statistiche, come quella degli stranieri residenti in percentuale sulla popolazione che ci colloca al nono posto, prima è l’Austria con il 16,6, seguita da Irlanda, Belgio, Germania, Spagna, Danimarca, Svezia e Grecia. O ancora: benché l’Italia sia il principale punto di approdo, siamo quarti per numero di richiedenti asilo nel 2021 (ultimo dato disponibile) con 53.610, dietro a Germania, 190.054, Francia, 120.685, e Spagna, 65.295.

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Semmai è il relativamente breve lasso di tempo in cui la nostra società si è trasformata in multietnica ad avere provocato qualche problema di integrazione, a fronte di nazioni che avevano una pratica di più lunga durata sul tema. E l’integrazione, benché necessaria e ineludibile, non è un pranzo di gala, parafrasando Mao Zedong.

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La nostra trentennale esperienza dovrebbe averci insegnato quanto relativamente effimeri siano gli “achtung” che si sono succeduti. Dapprima fu “mamma gli albanesi!” dopo l’implosione del regime maoista di Enver Hohxa e gli sbarchi in Puglia; poi “mamma i rumeni!”, arrivati a frotte nel primo decennio del nuovo millennio dopo l’entrata del Paese d’origine nell’Unione europea, e infine “mamma gli africani”. Albanesi, rumeni e gli africani arrivati da più tempo si sono felicemente inseriti nella nostra comunità tanto che 600 mila aziende sono guidate da stranieri, una su dieci. E in generale gli immigrati, dice un rapporto Ocse, pagano più tasse di quanto non ricevano in prestazioni assistenziali. Un po’ quanto avvenne agli italiani quando eravamo noi a migrare negli Stati Uniti, in Sudamerica, in Australia, in Germania o nelle miniere del nord della Francia e del Belgio.

 

Se oggi l’avversione riguarda soprattutto le persone con diverso colore della pelle è per i grumi di razzismo che persistono. A differenza, ad esempio degli ucraini, più benevolmente accolti perché «fuggono da una guerra». Anche dal Medio Oriente e dall’Africa si scappa dai conflitti. In alternativa dalle carestie o da condizioni di vita orrende. Comunque da situazioni di assoluto disagio. Nonostante questo resiste la distinzione assolutamente discutibile tra migranti politici e migranti economici. Anziché ingiuriarli, dovremmo rincorrere gli stranieri che si accalcano alle frontiere per fuggire a nord. Per invitarli graziosamente a restare.