L’uomo che catturò Provenzano era stato condannato a cinque anni per il rimpatrio della moglie del sedicente dissidente kazako Ablyazov. Depositate le motivazioni dell’assoluzione arrivata in secondo grado. L’investigatore si era dovuto dimettere da questore di Palermo

«Lunare, incomprensibile», «radicalmente insostenibile», «nulla di dimostrato». In 345 pagine di motivazioni, la corte d’Appello di Perugia, presieduta da Paolo Micheli fa a pezzi la sentenza di condanna in primo grado per sequestro di persona dei poliziotti protagonisti, loro malgrado, del cosiddetto caso Shalabayeva.

 

Si tratta della vicenda che costò la poltrona da questore di Palermo al superpoliziotto Renato Cortese, oggi a capo dell’ufficio ispettivo del Viminale. L’uomo che aveva catturato il boss Bernardo Provenzano fu infatti travolto dall’accusa e condannato in primo grado, il 14 ottobre 2020, dal tribunale presieduto da Giuseppe Narducci, a cinque anni, prima di vedersi riabilitato in appello, ma soltanto il 9 giugno dell’anno scorso.

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La storia ruota intorno al rimpatrio in Kazakistan, nel maggio 2013 della moglie e della figlia del sedicente dissidente Muktar Ablyazov, latitante in ambito internazionale. A maggio del 2013 a Roma fu condotta una perquisizione nella villa di Casal Palocco a Roma dove si riteneva che il ricercato si trovasse. L’irruzione non diede l’esito sperato. Ma tra le persone presenti, la moglie, presentò un documento che appariva palesemente contraffatto e si accreditò come Alma Ayan. Per questa ragione, priva di un titolo regolare per rimanere in Italia, fu accompagnata al Centro di identificazione ed espulsione, il Cie di Ponte Galeria, e da lì rimpatriata con la figlia su un aereo che l’ambasciata kazaka aveva noleggiato per l’occasione. Mai la donna, né i suoi legali esibirono i documenti autentici, né fu richiesto asilo politico.

L’espulsione avvenne secondo una procedura legittima e perfettamente aderente alla legge, ribadiscono ora in più passaggi i giudici d’appello.

 

Ma torniamo all’estate del 2013: a rimpatrio avvenuto deflagrò la bomba mediatica innescata dalla famiglia di Ablyazov e largamente accolta dall’opinione pubblica. L’idea prevalente fu che in ossequio a un regime dispotico, allora in ottimi rapporti con Putin, il Viminale avesse svenduto la sovranità nazionale consentendo la deportazione di una donna e di una bambina in un Paese canaglia. Era il tempo del governo delle larghe intese di Enrico Letta e il bersaglio era il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Quest’ultimo, per cavarsi d’impaccio, confinò il presunto scandalo nel recinto di un vuoto di comunicazioni verso il suo Gabinetto da parte della polizia.

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Il capo dello staff del ministro diede le dimissioni, ma, mancato il bersaglio principale, la polemica non cessò. L’indagine, aperta a Roma, dalla stessa procura che aveva dato il nulla osta al rimpatrio della donna, passò a Perugia quando, dopo la pronuncia della Cassazione che si espresse per l’illegittimità del rimpatrio, fu indagata la giudice Stefania Lavore chiamata a esprimersi sul trattenimeto al Cie di Alma Shalabayeva.

Alla fine, cessato il clamore, in assenza di pesci grossi, le vittime della tempesta rimasero l’allora capo della Squadra Mobile di Roma, Cortese, l’allora dirigente dell’ufficio immigrazione Maurizio Improta, quattro loro collaboratori e la giudice.

 

Fino alla sentenza di primo grado i contraccolpi furono relativi. Cortese arrivò a guidare la questura di Palermo, Improta quella di Rimini, ma quando il tribunale raddoppiò le richieste dell’accusa, le cose cambiarono e iniziò un calvario fatto di attesa di giustizia e sostanziale inattività. Con il peso di un’accusa odiosa e lo stigma consacrato nella sentenza di primo grado di aver svenduto il proprio giuramento alla Costituzione.

 

Ma nulla di quanto sostenuto dal tribunale «sta in piedi», sostengono invece i giudici di appello. Che sottolineano come «fuori dai romanzi» e dentro un processo penale vi sia bisogno di prove. Che qui sono mancate. La vicenda kafkiana descritta dal tribunale secondo il quale Cortese e soci avrebbero obbedito agli ordini di superiori per compiacenza resta non solo indimostrata ma illogica. Dal momento che manca la motivazione. Perché avrebbe dovuto compiacere i kazaki, «stendere un tappeto rosso dinanzi alle pretese illegittime o addirittura illecite, dei diplomatici dì un Paese che - sia detto con il dovuto rispetto - non era di certo una super-potenza sul piano degli equilibri politici internazionali?», si chiede la corte d’Appello. Dal momento che ammesso che avessero voluto acquistare benemerenze verso i superiori «di titoli per fare carriera essi ne avevano già, di benpiù elevata consistenza e validi». «Rimanendo al Cortese (che, in difetto di prove su regie di livello superiore, dovrebbe risultare il vertice italiano della congiura), è seriamente sostenibile che, compiacendo i kazaki con i quali avrebbe agito d'intesa, egli poté pensare di diventare meritevole di incarichi di maggior prestigio rispetto a quello che aveva?

O non è, piuttosto, ben più logico ipotizzare che divenne poi questore di Palermo per ben altre, note, legittime e incontestabili ragioni, pacificamente preesistenti?».

Domande, volutamente lasciate in sospeso per bollare la ricostruzione di primo grado come qualcosa che «rasenta l'assurdità».

La vicenda Shalabayeva sta tutta nella scelta di Alma che «fu clamorosamente arbitro del proprio destino, perché soltanto decidendo di esibire uno dei documenti validi di cui era titolare e che invece rimase nelle sue tasche (o in quelle dei suoi difensori) avrebbe subito bloccato qualsivoglia piano malevolo che oggi pretende di descrivere come ordito ai suoi danni su scala internazionale».

 

Passando in rassegna gli argomenti del tribunale, i giudici di appello li demoliscono in sequenza, contribuendo a smontare il profilo da dissidente che Ablyazov si era dato.

I giudici insistono poi sulle contraddizioni emerse già in primo grado. La più vistosa è che fu proprio Cortese, in teoria artefice del complotto, a indicare all’avvocato della donna il nome del pm che stava seguendo il caso del passaporto e al quale rivolgersi nell’eventualità di impedire il rimpatrio.

 

Demolito pure l’argomento fatto proprio dal tribunale secondo il quale non fu Alma Shalabayeva a insistere su un nome palesemente falso ma la polizia a voler confondere le acque non rappresentando con sufficiente chiarezza che la donna era proprio la moglie di Ablyazov così da ingannare l’autorità giudiziaria. «Dove sono il nascondimento, il sotterfugio, la volontà di trarre in inganno, se solo un minus habens avrebbe potuto non comprendere che quella donna era senz'altro la compagna del latitante sfuggito alla cattura, già identificata in passato come Alma Shalabayeva ma che ora insisteva pervicacemente nel sostenere di chiamarsi Alma Ayan, usando un passaporto con pagine strappate, caratteri non originali e strafalcioni in inglese?», scrivono i giudici. Che concludono: «Pare alla Corte, in buona sostanza, che - prima ancora di essere infondato - questo profilo dell'accusa sia oggettivamente lunare e incomprensibile, già in termini di elementare buon senso».