Il nuovo decreto del governo Meloni prevede fino a 30 anni di carcere per chi causa la morte di più persone. «Ma non servirà per ridurre i flussi migratori. Perché chi guida le imbarcazioni di solito è costretto. Non ha nulla a che fare con i trafficanti». Parla Nicola Datena, avvocato esperto di immigrazione

«In Libia sono stato rinchiuso per un mese con altri clandestini e poi ci hanno fatto imbarcare. Quando sono arrivato in Italia nel centro mi hanno preso e hanno detto che ero uno dei trafficanti. Così mi hanno portato in prigione. Sono arrivato all’ora di pranzo e a mezzanotte la polizia è venuta a prendermi. Se fossi stato un trafficante sarei scappato appena entrato in Italia», racconta Youssef, nome di fantasia, arrivato in Italia nel 2017 a bordo di una nave della Guardia costiera. Il gommone su cui viaggiava era stato soccorso giorni prima in acque internazionali.

 

Youssef spiega che ha guadagnato i soldi che ha dovuto dare ai trafficanti per il viaggio, circa 600 euro, lavorando come saldatore in Libia dove viveva con la sua famiglia. Racconta di aver scelto di partire insieme a sua sorella e alla figlia piccola di lei perché da dopo la caduta dell’ex dittatore libico Gheddafi la vita nel paese è diventata impossibile: «Non c’è più legge, la gente si ammazza, non puoi dire niente a nessuno per strada». All’arrivo in Italia alcuni degli altri migranti che erano a bordo del suo stesso gommone l’hanno identificato come colui che si alternava alla guida dell’imbarcazione.

 

«Effettivamente ha guidato, lo dice anche lui. Ma non perché fosse uno scafista. Era uno dei pochi che sapeva come fare e ha avuto il coraggio di farlo. Per le partenze in Libia solitamente funziona che i trafficanti spingono con percosse e forza centinaia di persone a bordo delle imbarcazioni. Danno loro un telefono satellitare e dicono di partire. Chi guida non è di loro interesse», spiega Nicola Datena, avvocato dello studio legale Bacab che si occupa di ricerca, formazione, monitoraggio e advocacy sulle tematiche della migrazione e dell’inclusione. Così Youssef, che è arrivato a novembre 2017, l’Italia non l’ha mai vista perché è stato prima in prigione e poi nei centri per il rimpatrio, in quanto è stato condannato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

 

E il suo non è un caso isolato, anzi. «Numerosi processi testimoniano che spesso le persone identificate come “scafisti” sono gli stessi migranti costretti a mettersi alla guida della barca per salvare la propria vita e quella degli altri. Oppure perché ricattati da chi ha organizzato il viaggio. Gli vengono imputati reati gravissimi mentre i trafficanti non subiscono alcuna conseguenza». Come spiega Datena, il problema grave dei reati di favoreggiamento all’immigrazione clandestina è che non tengono conto della complessità della realtà: «Vengono accomunate numerose condotte molto diverse tra loro. Non si distingue tra chi in modo professionale gestisce e organizza i viaggi da chi si trova a guidare l’imbarcazione. Inasprire le pene per gli “scafisti” è solo un’apparente dimostrazione di forza».

 

Che i governi italiani più volte hanno pensato di dover dare, senza raggiungere i risultati sperati. A normare questo tipo di reati c’è infatti il Testo unico sull’immigrazione del 1998 che «negli anni è stato più volte modificato sempre con un inasprimento delle pene e un aumento delle condotte che vengono riferite al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Che hanno portato anche a casi paradossali per cui sono state condannate persone che hanno solo ospitato i familiari che stavano per partire». Ma negli ultimi anni gli sbarchi sulle coste italiane non sono diminuiti: dal 2020 a oggi sono in progressivo aumento mentre, come si legge nel report “Dal mare al carcere” si stima che in Italia nel 2022 siano stati arrestati circa 350 scafisti.

 

Con il decreto migranti varato a Cutro il Governo aumenta pesantemente le pene per chi favorisce l’immigrazione irregolare: da 20 a 30 anni di carcere a chi causa la morte di più persone come conseguenza di traffico di clandestini. Da 15 a 24 se muore un solo migrante, e da 10 a 20 se in un naufragio ci sono feriti.

 

«L’inasprimento delle pene storicamente non ha mai avuto un effetto preventivo dei reati: si può pensare ad esempio al fatto che la pena di morte negli Stati Uniti non ha in alcun modo inciso sul numero di omicidi e di stragi, perché le violenze dipendono dall’alto numero di armi in circolazione. Per le migrazioni, allo stesso modo, un inasprimento delle pene, già altissime, non porta alla riduzione del fenomeno. Ma anzi accresce il prezzo sia economico sia umano che le persone sono costrette a pagare», conclude Datena.