Era un tesoro sprecato, tra banchine ridotte a suk e terminal fatiscenti. Poi è arrivato Pasqualino Monti, che lo sta rilanciando a colpi di ristoranti, investimenti e legalità

«Auguri» è l’unico vocabolo che gli esce dalla bocca. Traboccante di livore. Poi il capo dei concessionari del porto di Palermo si alza e se ne va. Fine estate del 2017: l’accoglienza per Pasqualino Monti è gelida. Ma forse, visto il contesto, non è una sorpresa. Il nuovo presidente dell’autorità portuale ha 43 anni e a Palermo è un marziano. Non è siciliano, è nato a Ischia dove la sua famiglia ha un albergo a quattro stelle. E arriva da Civitavecchia. L’ha spedito lì Graziano Delrio, ministro delle Infrastrutture del governo di Paolo Gentiloni, nel tentativo di mettere una pezza a una situazione disastrosa.

Il porto di Palermo cade a pezzi. Il molo Vittorio Veneto della Stazione marittima, quello dove attraccano le navi da crociera, si sta sgretolando e per questo è sotto sequestro. Alla Camera i grillini chiedono le dimissioni del presidente dell’authority Vincenzo Cannatella con un velenoso riferimento alla «logica spartitoria» che avrebbe indotto il ministro Maurizio Lupi a fare presidente dell’autorità portuale l’ex capo dell’Unasca, l’associazione delle autoscuole e dei consulenti automobilistici, perché «uomo considerato molto vicino al senatore Renato Schifani». Cioè il promotore del suo partito, il Nuovo Centrodestra, oggi presidente della Regione siciliana.

Gli appalti sono bloccati da anni, non c’è un terminal passeggeri degno di tale nome. Gli uffici dell’autorità chiudono tassativamente alle 14. Il porto è un suk, circondato da baracche dove si vende di tutto, dalle sedie di plastica alle magliette del Palermo calcio. Nella totale, ma interessata, indifferenza della politica per com’è ridotto un patrimonio simile in mezzo al Mediterraneo, comandano i titolari di un centinaio di concessioni demaniali che si perpetuano con logiche imperscrutabili.

Magazzini obsoleti e depositi fatiscenti alimentano minuscoli ma intoccabili giri d’affari senza alcun vantaggio per la collettività. Spazzare via quelle rendite di posizione, revocando le concessioni, è la prima cosa che il marziano proveniente da Civitavecchia decide di fare. Demolire ettari di robaccia: altrimenti è impossibile perfino pensare di poter aprire un cantiere. Il risanamento del porto è pura illusione.

Non è facile e lui lo sa. Così si presenta a comunicare la lieta novella ai concessionari accompagnato da una persona. Tanto per far capire che la musica è cambiata. Il suo nome è Leonardo Agueci, magistrato. E il sodalizio con Monti non nasce per caso.

Ex procuratore antimafia di Palermo, Agueci è grande amico di Mario Almerighi, con il quale nel 1988 fonda la corrente Movimento per la Giustizia. Da sempre in prima linea contro la corruzione, Almerighi è il magistrato che nel 1974 fa scoppiare lo scandalo dei petroli, soffocato subito dai politici con la legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Quando Monti viene collocato nell’estate 2011 da un governo Berlusconi ormai sul viale del tramonto a capo del porto di Civitavecchia, Almerighi è presidente del tribunale di quella città. E stende la sua ala protettiva sul giovanotto sponsorizzato per quell’incarico dal sindaco Pdl Giovanni Moscherini, ex presidente a sua volta dell’autorità portuale dove l’aveva già avuto come dirigente.

L’importanza del rapporto con Almerighi non è marginale. Gian Antonio Stella racconta sul Corriere della sera che il porto di Civitavecchia in pochi anni cambia faccia. Anche se non tutto fila liscio. Per esempio le divergenze con il nuovo sindaco Pietro Tidei, ex deputato del Pd che sarà sfiduciato dalla sua stessa maggioranza, sono sempre più profonde.

In confronto a quello che lo aspetta in Sicilia gli scontri con i politici di Civitavecchia però sono una passeggiata. Il benvenuto a Palermo? «Due pesantissime lettere di minacce e tre proiettili di kalashnikov arrivati per posta. Ma se ti fai impaurire non cominci nemmeno», dice Monti. Che invece comincia. Dal porticciolo turistico di Sant’Erasmo, luogo magnifico ma violentato dal degrado e seguito da una fama sinistra. Lì c’era la camera della morte di Cosa nostra, dove i nemici dei corleonesi venivano strangolati e sciolti nell’acido. «In un anno si è dimostrato che Sant’Erasmo si poteva rimettere in piedi. E quello», secondo Monti, «è stato certamente il segno della svolta».

Cinque anni dopo, anche il porto di Palermo sta cambiando aspetto. «In cinque anni», sostiene il presidente dell’authority, «si sono messi in moto investimenti per un miliardo. Qui si producevano 17 milioni l’anno di gettito Iva, ora siamo a 700 milioni». C’è un terminal passeggeri nuovo di zecca, il bacino di Fincantieri per le navi da crociera finanziato per il 70 per cento con fondi europei promette di garantire un bel po’ di lavoro in una città massacrata dalla disoccupazione, e nel 2022 le navi da crociera hanno sbarcato 554.279 turisti.

Il porto di Palermo, città sul mare che non aveva neppure una trattoria sul mare, ospita adesso pure il ristorante dello chef di Termini Imerese Natale Giunta, per anni sotto scorta dopo aver rifiutato di pagare il pizzo. Troppo presto, forse, per cantare vittoria. La rinascita dei porti è ovviamente cruciale per lo sviluppo economico della Sicilia. Anche se non può risolvere tutti i problemi di quell’isola meravigliosa. Senza poi contare i colpi di coda della politica, e la scarsa qualità della classe dirigente non garantisce che il percorso sia irreversibile.

Il contrasto di questa storia con la narrazione di un Sud ripiegato su sé stesso, vittima di sprechi, inefficienze, malaffare e commiserazione, è tuttavia la prova che cambiare si può. Ci vuole coraggio e forse anche un po’ di incoscienza. Ma si può fare, anche senza eroi.