La soffiata decisiva arrivata dal Piemonte dove abitavano Balduccio Di Maggio e i fratelli Graviano, la riunione della Cupola dove era atteso il boss, la mancata perquisizione dell’ultima residenza e gli obliqui messaggi dalla cella e in aula

Nel pantheon del crimine, dove l’ignominia abita la leggenda, era entrato in bianco e nero. Una segnaletica ingiallita, l’istantanea cartolina da piazza San Marco in mezzo ai piccioni. Baldanzoso, in maglia chiara, a sorridere alla compagna di vita e di una fuga agiata durata 23 anni.

La mattina di quel venerdì 15 gennaio del 1993 gli tolse la libertà ma non il ghigno sardonico. Lo ricacciò presto nelle nebbie che avvolgevano l’opaca cattura, viziata dal sospetto di indicibili compromessi. Ne alimentò la tetra fama, pur nell’angolo di una cella al 41 bis, rischiarata notte e giorno dai neon, fino alla fine, nel 2017.

Quella mattina di trent’anni fa, però, Salvatore, Totò, Riina, ebbe il colore. Non lo spessore, non la luce, ma il colore. La giacca a quadri su fondo marrone sopra una polo verde, la sciarpa ton sur ton, i pantaloni scuri e l’immancabile borsello, rivelarono il contegno artefatto di un borghese che si spacciava per contabile, alle prese con i riti e le miserie del vivere cittadino. Le guance rosee, più paffute che cadenti, i capelli ingrigiti sulla fronte aggrottata, il corpo appesantito ma non troppo, erano lo scotto pagato al giro di boa dei 62 anni trascorsi nel benessere conquistato nell’agio dell’ozio. Gli occhi, che dissero di ghiaccio, dardeggiavano l’odio sprezzante che hanno i despoti al tramonto.

[[ge:rep-locali:espresso:285303683]]

Incappò, dissero, nel traffico che di tutte le iatture metropolitane è stato sempre interclassista. Nessuno, a trent’anni di distanza da allora, si è mai fatto avanti per dire che sì era andata proprio come l’avevano raccontata. L’azione, riferirono, era stata fulminea. Consegnò il suo cacciatore, l’allora capitano Ultimo a una mitologia da fiction e a una taglia sulla testa. Erano le otto di una mattina. Le strade sbavavano ancora dell’umidità notturna. Allora, come ora, sarebbe stato un gennaio per nulla rigido. La temperatura sfiorava già i dieci gradi e con il sole alto sarebbe arrivata ai 16. Nessuna minaccia di pioggia, nonostante qualche nuvola.

Lungo la circonvallazione, al centro della rotonda di quello che era ancora uno degli imbuti viari più inconcludenti della sconclusionata urbanistica palermitana, di fronte a quello che per generazioni, nonostante i ripetuti cambi di insegna, era e sarà, fino a esaurimento di memoria, il Motel Agip, la Citroen guidata da Salvatore Biondino, con accanto il dittatore che aveva espugnato Cosa nostra per distruggerla nei suoi deliri da stratega truculento, si ritrovò bloccata. La squadra di ombre installatasi in Sicilia per scovare l’imprendibile che era dappertutto e in nessun luogo, quasi lo trascinò a forza fuori dall’abitacolo, gli scaraventò addosso una coperta per spingerlo sul sedile posteriore di una vettura senza insegne e sgommare via. In pratica una scena da film. Senza spettatori.

Gli avessero lasciato proseguire il tragitto, lo avessero seguito per altri tre chilometri. Gli fossero stati alle costole per altri quindici minuti si sarebbero trovati a una riunione della Cupola. Perché era lì, nella villa di Salvatore Biondino, tra la linea ferrata della stazione di San Lorenzo e l’ultimo tratto della circonvallazione, prima della bretella che porta all’autostrada per Trapani che erano diretti quei due e dove i compari erano già in attesa.

Ma di Biondino i cacciatori non sapevano nulla. Balduccio Di Maggio, l’ambiguo collaboratore di giustizia che da Borgomanero, in Piemonte - a due passi da Omegna, rifugio, guarda un po’ le coincidenze, dei terribili fratelli Graviano - li aveva condotti per mano fin lì, lo conosceva appena. Comunque quel tanto che bastava ad assicurare che dove c’era lui quasi sempre spuntava Riina. E lo chiamava “Biondolillo”. Eppure, era tutto tranne che un autista.

Governava da un pezzo il Nord della città, aveva una rete di informatori anche tra le forze dell’ordine, un controspionaggio che funzionava quasi alla perfezione e gli aveva permesso di stanare talpe e infiltrati. E, certo, per rango, prestigio e affidabilità, gli era concesso di custodire la latitanza del “corto”, come i suoi chiamavano il capo. Ma alle spalle. Al suo cospetto pochi potevano permettersi un confidenziale “Totuccio”. Ai più era permesso al massimo un riverente “zu’ Totò”, zio Totò. Avessero aspettato, avrebbero, per dirne una, visto con i loro occhi, il baffone che camuffava l’aspetto di Leoluca Bagarella, Luchino, il cognato di Totò, il fratello lesto di grilletto della maestrina Ninetta. Invece ci sarebbero voluti altri due anni, le stragi a Milano, Roma e Firenze, decine di delitti, e una manciata di nuovi pentiti per decretare la fine della dittatura corleonese su Cosa nostra.

Quel venerdì 15 gennaio 1993, invece, con i carabinieri inorgogliti da una preda esibita al prezzo di mille omissioni, Riina e Biondino furono il solo bottino.

Del superboss circolò quasi subito la foto scattatagli in caserma sotto al ritratto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che i suoi avevano voluto morto 11 anni prima. Poi un filmato che lo ritraeva, con le mani annodate in avanti dalle manette, correre a passetti veloci incontro all’elicottero che lo avrebbe condotto al rigore del carcere duro dal quale non sarebbe più uscito.

[[ge:rep-locali:espresso:285303691]]

Qualche tempo dopo, alla prima apparizione nell’aula di una giustizia che non era più quella con la quale gli era riuscito di vincere ai tempi delle assoluzioni di massa di Bari e Catanzaro, divenne anche un suono dentro gli stessi abiti del giorno dell’arresto. La voce stridula consegnò alle piste di registrazione le oblique correzioni alla sua biografia ufficiale. Se gli chiedevano di Cosa nostra, ovviamente diceva di non saperne nulla. Se gli davano del latitante, ribatteva, non senza fondamento, che nessuno lo aveva mai cercato. Se provavano a chiedergli come avesse cresciuto i figli in latitanza, lasciava che fossero loro a spiegare la loro surreale esistenza in anonimato divisi tra un padre amorevole e il sanguinario mostrato in tv. Più avanti, a un detenuto provocatore, avrebbe consegnato troppe verità sul suo ruolo nelle stragi Falcone e Borsellino, troppo limpide per non sembrare sospette, e sui suoi propositi di vendetta.

Il giorno del successo dello Stato che mostrava di saper rialzare la testa a sei mesi dagli eccidi dell’estate del 1992, Ninetta Bagarella, con i figli Giovanni, Maria Concetta, Lucia e Giuseppe Salvatore, tornarono a Corleone. Dove tutto era cominciato. I ragazzi presero a girare per la cittadina riappropriandosi di un passato che non doveva essergli ignoto. Giovanni si immedesimò nel contesto fino a farsi trascinare all’ergastolo dallo zio Luchino che se lo portò appresso per un omicidio a tre isolati da casa.

Dopo il 15 gennaio del 1993, la villa di via Bernini che la famiglia aveva abitato nel complesso di un piccolo parco discreto e riservato, a monte della circonvallazione, fu svuotata con calma. Restarono dietro la porta un santino della Madonna di Tagliavia, eremo per i devoti del Corleonese, qualche indumento e le istruzioni della pista elettrica per far giocare i bambini. Un’incomprensione, spiegarono, aveva indotto i magistrati a credere sorvegliata la residenza del padrino e i carabinieri, invece, a sospendere il controllo. Il buco nella vigilanza inghiottì molto del tantissimo che ancora non sappiamo su come andarono veramente le cose. La procura di Palermo che si era vista recapitare come un pacco dono nel giorno dell’insediamento di Gian Carlo Caselli la preda più ambita dell’elenco dei superlatitanti, provò anche a indagare sulla mancata perquisizione ma non ne cavò molto. Se non, appunto, che di equivoco si era trattato.

Nelle ore febbrili successive alla notizia della cattura di Riina, i cronisti avevano battuto palmo a palmo la zona intorno a via Bernini provando a trovare da soli quale fosse l’ultima abitazione del boss. E si erano pericolosamente avvicinati al vero rifugio quando i carabinieri si inventarono una grottesca messinscena con tanto di irruzione nel giardino di un fondo agricolo coltivato da fittavoli inadempienti della distratta Regione.

 

L’irruzione con la ruspa, rovesciando tra le lattughe quel che restava di un muro, senza passare per il cancello difeso da un timido lucchetto, fu un’altra scena da film ma questa volta a favore di telecamere. Ovviamente Riina non aveva mai messo piede nella catapecchia che indicarono come l’ultima sua dimora. E la Regione, travolta dallo sdegno, dovette correre a far di conto per presentare una cifra stellare di canoni rivalutati agli affittuari di cui si era dimenticata. In fondo, la più trascurabile delle distrazioni in mezzo a tante sviste.