Loujin, uccisa dalla sete, aveva sei anni. Un barcone con 80 persone a bordo non ha lasciato tracce, Tre bambini con tre adulti sono spirati dopo una traversata estenuante perché nessuno ha raccolto l’Sos. Eppure, salvare vite umane è un imperativo di legge, oltre che morale

Sono quasi le due del mattino, nel cuore del Mediterraneo centrale solo la luna calante illumina l’acqua scura. In zona sar maltese c’è una imbarcazione in difficoltà che ha chiesto aiuto. A bordo sarebbero in 250, sono in navigazione ormai da una settimana e nessuno li ha intercettati. Nelle vicinanze, per la verità, sono passati alcuni mercantili che li hanno schivati senza raccogliere la richiesta di soccorso. E intanto il telefono satellitare sta per scaricarsi.

«Si preannuncia una potenziale nuova tragedia», dicono gli attivisti che da terra hanno raccolto la richiesta di aiuto. Le coordinate della loro posizione sono state inviata all’SRR di Malta, il search and rescue center di La Valletta che, però, non ha risposto. Nessuno interviene, nonostante passino le ore e le condizioni dei migranti a bordo diventino sempre più critiche. Esattamente come è successo qualche giorno fa, quando un barcone di legno è rimasto per dieci giorni in mezzo al mare e una bimba siriana è morta disidrata. “Mamma, ho sete”, sono state le ultime parole di Loujin, uccisa dall’incuranza di una Europa che si è voltata dall’altra parte.

«È stata una omissione di soccorso», ha detto l’attivista Nawal Soufi, che anche in queste ore sta monitorando l’altra imbarcazione in difficoltà. Ma sono d’accordo che si tratti di omissione di soccorso anche gli attivisti di Alarm Phone. Il centralino dedicato ai migranti in difficoltà in mare che ogni settimana conta tantissimi casi di mancata assistenza. «Purtroppo, succede spessissimo», racconta una delle volontarie della Ong «e non possiamo fare altro che segnalare i casi. Tre settimane fa – dice ancora l’attivista - abbiamo lanciato l’allarme per un barcone con 80 persone a bordo di cui si sono perse tutte le tracce». Quelle persone probabilmente sono morte, nell’anonimato e nel silenzio.

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C’erano sei morti anche a bordo del barcone che ieri pomeriggio prima un mercantile e poi una motovedetta della guardia costiera italiana hanno portato a terra, a Pozzallo. Due bambini di 1 e 2 anni, un dodicenne e tre adulti, tra cui la nonna e la madre di bambini sopravvissuti, sono morti di stenti. Di fame e di sete, perché erano in mare da oltre sette giorni e, nonostante le richieste di aiuto, sono stati ignorati. Sono stati abbandonati in mare da Malta, dalla Grecia. Nessuno ha raccolto l’Sos, anche se era stato detto che a bordo c’erano dei bimbi che stavano male. Ancora una volta, l’Europa si volta dall’altra parte e distoglie lo sguardo da quel che succede nel suo mare. Eppure, salvare vite umane è un imperativo di legge, oltre che morale. «Il soccorso in mare è saldamente radicato nel diritto internazionale», ha ribadito ieri pomeriggio anche l’Unhcr, dopo l’ultima tragedia. Lo dice la Convenzione di Amburgo: c’è l’obbligo di prestare assistenza a chiunque si trovi in situazione di pericolo in mare, senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata”. Lo dicono, tra gli altri, la convenzione Solas, il Codice della navigazione. Ma restano parole scritte, sentenze che nella pratica quotidiana non hanno alcun peso.

«Ci sono decine e decine di imbarcazioni che spariscono nel nulla, inghiottite dalle onde», racconta un altro degli attivisti di Alarm Phone. «E fare un calcolo è molto difficile. Quante persone muoiono senza che nessuno lo sappia?». Perché se non c’è nessuno a raccontarlo, è come non fosse mai accaduto. Ma se invece quelle persone in pericolo si vedono e però si ignorano, allora quello è un reato. Ed è disumanità. «È necessario fare di più per ampliare i canali sicuri e regolari e crearne di nuovi», ha sottolineato ancora l’Unhcr, «per fare in modo che le persone in fuga da guerre e persecuzioni possano trovare sicurezza senza mettere ulteriormente a rischio le loro vite».

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Nonostante sia passata tutta la notte, l’imbarcazione in difficoltà al largo di Malta non ha ricevuto alcuna risposta. A bordo ci sono molte donne e bambini, quasi tutti siriani, palestinesi e libanesi. Perché è proprio dalle coste del Libano che sono partiti, così come hanno fatto anche gli altri barconi soccorsi di recente. Da un paio di mesi si è aperta una nuova rotta dal Libano verso le coste dell’Europa. La navigazione è lunga quasi dieci giorni, a seconda delle condizioni del mare. Non è come la traversata dalla Libia alla Sicilia, questo viaggio lungo oltre duemila chilometri è impegnativo e costa ai migranti molti soldi. Che finiscono tutti nelle tasche dei trafficanti. Se riescono ad arrivare senza grosse difficoltà, queste imbarcazioni attraccano spesso in Calabria.

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Stessa meta anche delle barche a vela che, invece, stanno partendo due volte a settimane dalle coste della Turchia. Quasi diecimila euro a persona dalle coste di Smirne fino a Roccella Ionica. Il viaggio dal Libano costa molto meno, ma è anche più rischioso, perché i battelli non sono in ottime condizioni, sono più piccoli e affollati. E, soprattutto, spesso, non c’è abbastanza spazio per i viveri necessari a superare la traversata. Se manca l’acqua, si rischia di morire di sete, proprio come successo a Loujin e ai sei migranti morti ieri. Fuggivano da guerra, orrori e torture e sono rimasti lì, in balia delle onde, intrappolati tra quei trafficanti senza scrupoli e un’Europa che li ignora e preferisce lasciarli morire.