Le condizioni delle persone dietro le sbarre sono disumane. Ed è necessario affrontarne i nodi, non solo quando tragicamente i detenuti si tolgono la vita

C’è voluto il suicidio di una detenuta di 27 anni nel carcere di Verona (un mese fa nella stessa galera un’altra giovane si era ammazzata) per costringere giornali e media a occuparsi della tragedia della detenzione e delle condizioni di vita delle persone private della libertà. È davvero il segno della crudeltà e della insensibilità del Paese di Cesare Beccaria che si rifiuta di immaginare una riforma umana e civile.

 

Molte voci si sono levate per manifestare dolore sincero, tra queste anche quella del magistrato di sorveglianza che si occupava da tempo del caso della giovane che si è arresa di fronte al difficile mestiere di vivere.

Confesso di percepire in tanti commenti un alone di ipocrisia, soprattutto di paternalismo per evitare di affrontare i reali nodi.

I cinquantadue suicidi di quest’anno sono davvero tanti, troppi. Ovviamente ogni suicidio ha un contenuto di mistero insondabile e una sua unicità; una scelta che richiede rispetto e non la ricerca di cause o responsabilità banali, buone per mettersi a posto la coscienza.

 

Un numero davvero impressionante è quello dei tentati suicidi, ben 1.078; possiamo valutare a parte gli atti puramente dimostrativi o quelli attribuibili alla ricerca del cosiddetto sballo, ma rimane un quadro di sofferenza diffusa. Per capirne le ragioni profonde e soprattutto agire in funzione preventiva sarebbe necessario costruire un carcere di relazioni umane valide, con l’aiuto di psicologi capaci e sensibili: questo sarebbe un compito del Servizio sanitario pubblico.

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Evocare la tossicodipendenza o la fragilità rischia di nascondere le responsabilità di scelte politiche che hanno determinato l’incontenibile bulimia della detenzione sociale. Vale la pena ribadire i dati: dei 54.000 detenuti presenti, il 35 per cento è responsabile di violazioni della legge antidroga (detenzione e spaccio) e il 28 per cento è classificato come “tossicodipendente”: oltre 15.000 persone che per tutti, a parole, non dovrebbero stare in carcere. Un fenomeno sociale, culturale, di stile di vita è stato criminalizzato, devolvendo la sua risoluzione a una istituzione totale che proprio per questo soffre il peso di un insostenibile sovraffollamento. Il carcere come extrema ratio, riservato ai soggetti che hanno compiuto gravi delitti e con lunghe pene, già ora si potrebbe fare. Vi sono tanti detenuti, ben ventimila, che hanno un residuo pena breve (6.996 fino a un anno, 7.073 fino a due anni, 6.009 fino a tre anni): una condizione che consente l’applicazione di misure alternative.

Dopo il tempo della pandemia, delle quarantene e di restrizioni insopportabili, in assenza di qualsiasi misura di compensazione, almeno va realizzato un piano straordinario di uscita dal carcere che dia speranza. Anche con sperimentazioni coraggiose, come aveva immaginato Sandro Margara che nel 2005 suggeriva la creazione di Case territoriali di reinserimento sociale, con la direzione affidata al sindaco.

Una soluzione per dare corpo all’art. 27 della Costituzione, che vieta pene contrarie al senso di umanità e le finalizza al reinserimento in seno alla società. Un articolo che costituisce uno spartiacque fra barbarie e ragione. Proprio quello che Giorgia Meloni un anno fa ha picconato.