L’incendio della città sull’Egeo di cui fu testimone il grande scrittore segnò la fine dell’espansionismo ellenico. E ancora oggi il ricordo dei profughi resta vivo, mentre i rapporti tra le due nazioni continuano a essere tesi

«Prendete la tensione che si prova quando il lanciatore entra nel box davanti agli spalti gremiti della prima partita delle World Series, moltiplicatela per la tensione che si prova quando la barriera si alza, il gong suona e si parte per il King’s Plate al Woodbine, aggiungete la tensione che si prova quando si cammina al piano di sotto, e si aspetta spaventati e infreddoliti qualcuno che si ama, mentre un medico e un’infermiera stanno facendo qualcosa in una stanza di sopra e non si può prestare aiuto in alcun modo, e avrete qualcosa di paragonabile alla sensazione che si prova ora a Costantinopoli»: con queste parole un giornalista di nome Ernest Hemingway descriveva sulle pagine del Toronto Star l’atmosfera respirata, nel settembre del 1922, nella capitale dell’Impero ottomano ormai in procinto di dissolversi.

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Incaricato di raccontare la guerra greco-turca ai lettori del quotidiano canadese, lo scrittore, ai tempi ventenne, aveva evocato l’immagine familiare di scene di vita sportiva come quelle di una partita di baseball o l’inizio della gara nell’ippodromo di Toronto, il Woodbine, per descrivere la tensione che aveva stretto in una morsa gli abitanti della città ottomana. «Gli inglesi possono salvare Istanbul», titolava il primo dei suoi articoli inviati dalla regione, mentre nella capitale si attendeva l’ingresso dell’esercito guidato da Mustafa Kemal Atatürk, e le comunità non-turche temevano di cadere vittima dell’«orgia patriottica» perpetrata lungo la costa dell’Anatolia dalle truppe nazionaliste. Nelle settimane precedenti, infatti, era iniziata quella che ancora oggi i Greci ricordano come «la grande catastrofe», ovvero la cacciata degli abitanti greci dall’Asia Minore, l’attuale Turchia, di cui quest’anno ricorre il centenario.

 

Nel 1919 la «grande idea» aveva motivato l’avanzata dell’esercito del Regno di Grecia in Asia minore: un progetto politico ideato dal primo ministro Eleftherios Venizelos, che ambiva a riunire i territori abitati dalle comunità greche in Asia minore con Atene, e includere nel nuovo Stato la città di Costantinopoli, ancora oggi evocata in greco semplicemente come “i poli”, “la città” per eccellenza dell’ellenismo. L’esercito guidato da Atatürk, padre del futuro Stato moderno turco, aveva invece provocato la disfatta delle truppe e la fine del sanguinoso progetto utopistico: il 13 settembre 1922 la città costiera di Smirne, crocevia millenario delle culture del Mediterraneo, venne data alle fiamme e gli abitanti greci, armeni e ebrei si ammassarono sui moli del porto nel tentativo di sfuggire alle rappresaglie dell’esercito. I drammatici eventi ispirarono ancora Hemingway, anni dopo, per il racconto “Sul quai di Smirne” confluito ne “I quarantanove racconti”.

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Più di un milione di profughi riuscì a mettersi in salvo su imbarcazioni di fortuna e approdò a Lesbo, Chios, Samos: le stesse isole designate a ospitare oggi gli hotspot per i migranti in arrivo dalle coste turche. Si trattò del primo scambio di popolazioni riconosciuto dalla comunità internazionale: i Greci non furono le uniche vittime della migrazione forzata, mezzo milione di persone appartenenti alla comunità turca che risiedeva nel territorio greco venne costretto a abbandonare la propria casa per insediarsi nella neonata Turchia. Ancora oggi, se si cammina tra le stradine acciottolate della città di Ayvalik, non lontano da Smirne, si possono ascoltare conversazioni in cretese tra i discendenti dei turchi costretti a lasciare l’isola greca, uniti ancora oggi nel ricordo della “patria perduta”.

 

In occasione dell’anniversario dell’incendio, assurto a simbolo della «grande catastrofe», centinaia di iniziative culturali sono fiorite in Grecia, ma i cittadini non hanno bisogno di una ricorrenza per togliere dagli album di famiglia la polvere del tempo: oggi in quasi ogni casa si può incontrare un discendente dei profughi dell’Asia minore. Nel 1922 un milione e mezzo di persone cercò riparo in Grecia, Paese popolato allora da appena 5 milioni di cittadini; i raffinati e cosmopoliti abitanti dell’Anatolia vi misero piede privati di tutto tranne che della loro cultura, destinata a lasciare un’impronta indelebile nella carta di identità del moderno Stato. Anche le donne fuggite dall’Asia minore contribuirono all’evoluzione del ruolo femminile nella società, basti pensare che nel periodo in cui nello Stato greco l’analfabetismo femminile toccava punte molto alte, a Smirne si contavano già due istituti dedicati all’educazione delle donne.

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Dal lungomare della città divorato dalle fiamme fuggì il sedicenne Aristotele Onassis, destinato a divenire il più famoso armatore greco; le scene di devastazione a cui scampò assieme a migliaia di profughi si impressero nell’immaginario di un altro greco originario della città, Giorgos Seferis, poeta insignito anni dopo del premio Nobel per la letteratura, impegnato in quel tempo a studiare legge a Parigi.

 

L’eredità della «grande catastrofe» è rintracciabile anche nel mondo dello sport: nel giugno scorso, durante una partita di calcio tra le squadre del Panionios e Apollon Smyrnis, rifondate entrambe nella capitale greca dai profughi, i tifosi hanno srotolato uno striscione con scritto «Madre Smirne, oggi vedi giocare i tuoi ragazzi». Un saluto tra ultras, vicini ai movimenti antifascisti di Atene, orgogliosi delle proprie origini ma ostili alla retorica nazionalista.

 

L’anniversario si inserisce infatti nella cornice delle annose tensioni tra Atene e Ankara per la contesa delle acque territoriali nell’Egeo. Nel giugno scorso, anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha menzionato in un discorso ufficiale l’anniversario della grande catastrofe: «Invitiamo la Grecia a smettere di militarizzare le isole e a rispettare gli accordi internazionali. Lasciate perdere sogni e iniziative di cui vi pentirete, proprio come accaduto un secolo fa».

 

Ankara, infatti, chiede la demilitarizzazione di alcune isole greche prospicienti la Turchia, come Lesbo e Chios, nel rispetto dell’accordo di Losanna firmato tra i due Stati alla fine del conflitto di cento anni fa. Una richiesta irricevibile per il governo greco, minacciato dalla dottrina della cosiddetta «Patria blu», strategia di politica estera che punta a ridisegnare le aree di giurisdizione marittima della Turchia per farne di nuovo una potenza navale. Nel luglio scorso l’alleato nazionalista del presidente Erdogan, Devlet Bahceli, si è fatto fotografare accanto a una mappa che raffigura come turche molte delle isole greche dell’Egeo e Creta.

 

Ma il reale motivo di attrito riguarda la definizione delle acque territoriali: la Convenzione Onu sul diritto del mare (Unclos), ratificata da Atene ma non da Ankara, ha riconosciuto agli Stati il diritto di estendere unilateralmente i propri confini marittimi fino a 12 miglia. Una prerogativa, rivendicata dalla Grecia, dalle conseguenze potenzialmente distruttive: come stabilito infatti nel 1995 dal Parlamento turco, se lo Stato membro dell’Unione europea estendesse la linea di demarcazione oltre le attuali 6 miglia l’azione verrebbe interpretata come una dichiarazione di guerra.

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A agitare le acque nell’Egeo contribuisce, inoltre, il proposito di Atene di accreditarsi come l’alleato più affidabile della Nato nella regione: il Paese mediterraneo mette a disposizione degli Stati Uniti le basi militari di Souda, nell’isola di Creta, e di Alexandroupoli, la città della Tracia, dove arriva anche il gas liquefatto importato dagli Usa, situata in posizione strategica rispetto allo Stretto dei Dardanelli, da cui cento anni fa partirono molti profughi.

 

Le tracce di quegli esuli sono impresse nei nomi e negli edifici delle periferie che abbracciano il centro di Atene: nel sobborgo di Nea Smyrni, “Nuova Smirne”, i bambini sfuggono al caldo estivo rincorrendosi nell’acqua delle fontane che zampillano di fronte alla statua del metropolita ortodosso Crisostomo di Smirne, linciato durante l’incendio e poi santificato. Più a Nord, nel sobborgo di Kaisariani, il cui nome evoca Kayseri, città della Cappadocia, sono ancora visibili le case in calce dal tetto basso costruite dai profughi.

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Christos Boskopoulos, sindaco del sobborgo e presidente del Centro per la cultura dei Greci dell’Asia minore, è convinto di come sia sbagliato, oggi, parlare soltanto di “catastrofe”: «L’esodo dall’Asia minore è scaturito da vicende drammatiche, ma ha determinato la rinascita dello Stato moderno greco: la presenza secolare degli abitanti greci, inoltre, ci ricorda di come la convivenza tra i due popoli è stata a lungo pacifica, prima del tragico epilogo». Uno dei maggiori sostenitori di questa amicizia è stato il compositore greco Mikis Theodorakis, la cui madre era a sua volta fuggita dall’Asia minore. Promotore negli anni Ottanta del Comitato di amicizia greco-turca, Theodorakis aveva riempito i teatri di Istanbul esibendosi insieme agli artisti anatolici. Forse non è un caso che passeggiando oggi tra le strade di Kaisariani, dietro alle finestre ornate dai gerani e nei cortili interni costruiti secondo lo stile orientale, le sue canzoni siano quelle che risuonano più di tutte.