Un luogo in cui rivivere l’esperienza in diretta dei viaggi dei nostri connazionali, tra miseria, fatiche, discriminazioni e sfruttamento. E c’è anche il nonno di Papa Bergoglio a raccontare la storia di una famiglia approdata in Argentina. «Se Ellis Island è il santuario degli arrivi dei migranti in America, possiamo dire che questo è il santuario delle partenze»

Quando ad emigrare eravamo noi italiani poteva accadere di partire con tutta la famiglia dal Veneto, arrivare al porto di Genova con qualche valigia di cartone e i biglietti di sola andata in terza classe per il Brasile e scoprire che la nave era in ritardo.

 

Non di qualche ora, come a volte capita con il traghetto per le vacanze in Sardegna, ma di una settimana. E capitava anche che non ci fossero soldi per l’albergo e allora padre, madre e figli venivano accolti insieme con centinaia di altri passeggeri squattrinati in una stamberga sporca e con un solo bagno da condividere. Accadeva a fine Ottocento, per esempio. E quando, magari negli anni Cinquanta, eravamo sempre noi italiani a emigrare poteva capitare di andare a fare la vendemmia a Martigny, in Svizzera, per guadagnare 5 franchi al giorno, quando le giornate di lavoro duravano 13 o 14 ore. E quando ad emigrare negli anni Settanta eravamo sempre noi italiani poteva invece succedere a un operaio siciliano di essere licenziato dalla Volkswagen in crisi molti mesi prima di un suo collega tedesco. Insomma, in quel periodo il fatidico «prima gli italiani» era la norma in Germania. Ma a ruoli invertiti…

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Ecco, a Genova dal 12 maggio scorso è aperto il museo che racconta questo “ruolo invertito”, così come è stato vissuto da milioni di italiani durante la lunghissima epoca delle migrazioni interne e verso l’estero. Si chiama Mei ed è il Museo nazionale dell’emigrazione italiana, nato da una sinergia tra il ministero della Cultura, la Regione Liguria e il Comune di Genova. Ha trovato spazio in un edificio che non solo è uno dei più antichi del capoluogo ligure, ma è anche quello simbolicamente più consono: è la Commenda di Prè, costruita dagli Spitalieri di San Giovanni (poi Cavalieri dell’Ordine di Malta) intorno al 1180 come ospedale e ostello per i pellegrini e i cavalieri diretti in Terra Santa all’epoca della terza crociata. E molti secoli dopo dalle banchine del porto, proprio qui fronte, sono partite tutte le ultime grandi ondate migratorie verso le Americhe, l’Asia, l’Africa e l’Australia…

 

Ma siccome per partire verso luoghi così lontani, sono necessari i documenti, prima di iniziare il nostro viaggio nel Museo dell’emigrazione è necessario procurarsi il passaporto, che è digitale e sotto forma di braccialetto con un sensore NFC. Le generalità possono anche essere inventate e non è necessario dichiarare il genere sessuale: per il Mei non c’è differenza. Ci sarà tempo durante il percorso per vedere altre differenze, discriminazioni e pregiudizi.

 

Passaporto al polso, si intraprende il viaggio attraverso le essenziali architetture romaniche della Commenda appena restaurata con mano delicata per scoprire un pezzo di storia importante del nostro Paese. «Se Ellis Island è il santuario degli arrivi dei migranti in America, possiamo dire che questo è il santuario delle partenze», spiega Pierangelo Campodonico, che oltre ad essere direttore del Museo del Mare che si trova quasi di fronte alla Commenda, è anche il regista degli allestimenti del Mei insieme con Giorgia Barzetti e Nicla Buonasorte.

 

Un santuario che oggi accoglie le storie di centinaia di migranti italiani di tutte le epoche, dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, i quali raccontano perché e come sono partiti; come sono stati accolti, come sono stati trattati e spesso maltrattati; come hanno fatto fortuna o perché non sono riusciti a realizzare i loro sogni.

 

Il viaggio, qui alla Commenda, è tutto multimediale e interattivo: non ci sono oggetti in mostra e nemmeno documenti originali. Eppure sembra tutto vero.

 

Si parte da una premessa che sgombera il campo da eventuali strumentalizzazioni: il primo totem al quale si presenta il passaporto-braccialetto spiega che la migrazione è una caratteristica tipica dell’umanità. L’homo sapiens è partito dal cuore dell’Africa per colonizzare tutto il pianeta. Insomma, la specie umana migra per sua natura e nessuno è mai riuscito a fermarla.

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E gli italiani in particolare perché sono emigrati? Per tanti motivi e non soltanto legati a condizioni di necessità. Uno lo racconta all’inizio del percorso espositivo il nonno di Papa Bergoglio, che si anima in un video a tutta parete dopo un contatto NFC del braccialetto-passaporto e spiega, nell’interpretazione dell’attore Massimo Olcese, che lui è partito e tornato più volte, perché i soldi non bastavano mai e perché «in Italia i campi sono pochi e i padroni sono tanti, invece nelle pampas argentine la terra non finisce mai...». Ma si parte anche per rincorrere falsi miti nati sulla base di quelle che oggi chiameremmo fake news: «In America ci sono alberi sui quali nascono i dollari», dice l’attore del video che parte in una delle prime ambientazioni del Museo.

 

I veri motivi che spingono gli italiani a lasciare la loro terra sono spiegati più avanti. Per esempio nella sala successiva dove, seduti intorno a una tavola imbandita, basta sfiorare un sensore con il braccialetto perché sul fondo dei piatti compaiano le immagini dei cibi miseri di quell’Italia nemmeno così lontana. Di lato, su alcuni totem, scorrono altri personaggi con tutto il loro bagaglio di malanni e malattie da lasciarsi alle spalle per andare incontro a una vita diversa.

 

Non sempre migliore, anzi, a volte con un finale tragico. Per questo nel cortiletto della Commenda c’è il Memoriale delle sciagure che hanno costellato la storia delle nostre emigrazioni: dal massacro di Aigues Mortes, in cui persero la vita un numero imprecisato di lavoratori delle saline accusati ingiustamente di aver ucciso alcuni francesi; alla strage del 1913 nella miniera statunitense di Dawson e, mezzo secolo dopo, in quella belga di Marcinelle; dal linciaggio del 1891 di New Orleans in cui morirono undici siciliani, al naufragio nel 1940 della Arandora Star che costò la vita a 446 civili italiani. La memoria nel Museo è affidata a un totem multimediale e a una teoria di funi rosse come il sangue che sembrano scendere direttamente dal cielo per sorreggere il nome delle località in cui ebbero luogo le tragedie.

 

Siamo andati a milioni in tutti i Paesi e sempre qui al primo piano - dove il mondo è “apparecchiato” su grandi tavoli a forma di planisfero con i continenti in rilievo - si possono ascoltare e vedere le vite di successo di molti di noi: storie di sport e di cultura, di artigianato e di impresa, di musica e di cibo ricostruite in pillole grazie alla collaborazione di una miriade di enti pubblici, associazioni di emigrati, archivi storici, musei, club sportivi di tutto il mondo e di tutta Italia.

 

Il viaggio prosegue in salita, al secondo piano, dove è stato creato un labirinto verticale. Si raggiunge salendo, non per caso, alcune rampe di scale ed è composto da una serie di cubi sovrapposti dentro i quali si impatta, non senza disagio autentico, in una sorta di “test di accoglienza”. In ogni cubo si trova un totem sul cui monitor compare un attore o un’attrice di lingua madre (francese, inglese, tedesca, spagnola), un personaggio con il quale fare i conti per passare la frontiera, cercare lavoro, trovare casa. Intanto bisogna capire di che cosa questi personaggi stiano parlando e poi bisogna risolvere un quiz a risposta multipla, sperando di azzeccare quella giusta. Con conseguenze ovviamente diverse a seconda della risposta.

 

C’è il poliziotto di lingua inglese che considera gli italiani ignoranti e scansafatiche; l’agente di frontiera argentino che rispedisce in patria un italiano di 60 anni perché troppo avanti negli anni; il latifondista che parla uno spagnolo incomprensibile e che così ti convince a lavorare quasi gratis per lui. Situazioni a tratti umilianti, da cui eventualmente fuggire a tutta velocità infilandosi nel tubo arancione di un toboga che riporta alla base del labirinto.

 

È qui che si trova una delle installazioni più significative, quella dedicata al lavoro. Fa da scenario un incrocio di travi d’acciaio di quelle usate per costruire i grattacieli nelle metropoli americane e che con un gioco di specchi salgono all’infinito. Sui monitor scorrono altre storie, altri spunti di riflessione.

 

Nicoletta Viziano, presidente del Mei (e del Museo del Mare), tira un sospiro di sollievo perché l’impresa non è stata facile: «Non c’erano materiali, non c’erano precedenti. Ora l’obiettivo è quello di creare un database, consultabile anche online, con i contributi provenienti dalle nostre comunità all’estero per ricostruire altri pezzi di memoria e rinnovare di continuo i racconti del museo. Si è messo in moto un meccanismo che potrà avere anche importanti ricadute economiche. Per esempio la famiglia Pellerano, originaria di Santa Margherita Ligure, che ha fondato uno dei più antichi quotidiani di Santo Domingo (il Listin Diario, ndr), anche attraverso l’operazione museo ha avuto modo di manifestare il proprio interesse a tornare in Italia per investire».

 

A settembre si attendono molte scolaresche. Gli allievi scopriranno sul monitor della biglietteria che a partire dal 2000 il saldo tra italiani che rientrano e italiani che partono ha di nuovo invertito la tendenza. Se nel 1973, per la prima volta nella storia, sono stati più i rientri delle partenze ora la corsa verso l’estero è ripresa a ritmo sostenuto.