Un protocollo per accogliere le donne che subiscono violenza in contesti legati alla criminalità organizzata. È quanto presentato in Umbria a dodici anni dalla scomparsa di Barbara Corvi. Ecco perché “Libere di essere” segna una svolta

Barbara Corvi è scomparsa da Amelia in Umbria dodici anni fa, uccisa dalla mentalità maschilista e da quella mafiosa insieme. Era sposata con Roberto Lo Giudice, del clan calabrese Lo Giudice, scoperta in una relazione extraconiugale, è stata sciolta nell’acido (è quanto emerge da un’intercettazione, ma non c’è certezza) così come prevede il codice d’onore della mafia e così come vuole il codice maschilista che vede le donne come prive di libertà e da controllare.

 

E in suo ricordo che nasce il protocollo regionale umbro “Libere di essere”, il primo in Italia rivolto all’accoglienza delle donne che subiscono violenza in contesti mafiosi. È stato presentato a Perugia il 27 giugno, compleanno di Barbara, in attesa di approvazione definitiva. Un lavoro nato dopo anni di studio e di approfondimento sulle dinamiche intersezionali tra la violenza mafiosa e la violenza di genere.

 

Il protocollo nasce dalla collaborazione con il Centro per le pari opportunità della regione Umbria e la rete dei centri antiviolenza dell’Umbria, e rappresenta la prima esperienza in Italia di rete formalizzata tra Associazioni e Istituzioni per l’accoglienza, l’accompagnamento ed il supporto delle donne sopravvissute o che intendono intraprendere un percorso di uscita dalla violenza maschile e di stampo mafioso. Un programma ampio che prevede un lavoro di formazione professionale, ma anche didattico e scolastico qualora mancasse e, infine, una collocazione abitativa. E che coinvolga anche i minori.

 

«L’idea alla base è che per le donne che sopravvivono alla violenza mafiosa o che vogliono intraprendere un discorso di liberazione maschile abbiano una rete a disposizione che attivi percorsi di salvezza», spiega Sabrina Garofalo sociologa dell’osservatorio sulle infiltrazioni mafiose e l’illegalità della regione Umbria. «Queste donne non sono né testimoni di giustizia, né collaboratori, non hanno quindi percorsi personalizzati a loro rivolte. Noi abbiamo voluto dare una forma istituzionale a qualcosa che non c’era».

 

Da qui l’intuizione, nata in seno all’Osservatorio, di ragionare sulle politiche di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne nonché sui modelli di accoglienza che caratterizzano i centri antiviolenza. «Spesso i protocolli vengono calati dall’alto senza troppa ricerca, invece si devono adattare ai territori a cui si riferiscono, perché esistono delle specificità in ognuno - aggiunge Garofalo - noi siamo partiti da una rete, quella umbra già consolidata, come quella dei centri antiviolenza, per sviluppare il documento».

 

«In Umbria si é sempre pensato che il problema della criminalità organizzata riguardasse altre regioni d'Italia e invece la storia di Barbara Corvi ci ha insegnato che ci riguarda eccome - spiega Sara Pasquino, consigliera regionale dell’Umbria - In Umbria esistono tanti indicatori, dai processi contro la ‘ndrangheta, alle interdittive antimafia, fino alle numerose confische di beni, che testimoniano un radicamento ormai decennale delle organizzazioni».

 

L’Umbria non è un territorio estraneo alle dinamiche di infiltrazione mafiosa, ma punta a lavorare su due piani: da un lato la tutela delle donne sul territorio, dall’altro diventare luogo di accoglienza anche per le donne che provengono da altre regioni e possono così sperare in una nuova vita lontana dalla violenza maschile e mafiosa.

 

«Non possiamo pensare che i due problemi, violenza di genere e mafia, viaggino separati. In questa regione, che da anni ormai è diventata un laboratorio di sperimentazione delle destre - aggiunge Pasquino - la stipula di questo protocollo assume un valore importante perché é un progetto fortemente voluto dalle associazioni antiviolenza in collaborazione con le istituzioni, come dovrebbe sempre avvenire».