Niente intelligenza artificiale o super tecnologie: le creature dell’artista calabrese nascono dai rottami. Ma hanno certificato di nascita con caratteristiche e inclinazioni fantastiche

Ognuna di queste creature metalliche, replicanti che non ci soppianteranno, ha una personalità spiccata, sfumata, ultra-umana. Aspetto rigido, sentimenti morbidi e teneri bulloni. Assomigliano a robot, lui li chiama così, ma qui non domina l’intelligenza artificiale. Non sono automi destinati a lavorare al posto nostro, rubandoci cinismi: il primo a immaginarne l’avvento era stato, un secolo fa, lo scrittore ceco K. Čapek nel distopico “R.U.R”.

 

«Un mio amico, vedendone uno, lo prese in braccio con trasporto inconsapevole e istintivo. In quel momento ne ho intuito la forza». Mettiamo da parte ogni tentazione animistica più o meno cibernetica: l’inventore di questi prodigi analogici e chip-free, orfani del progresso industriale e del consumismo sfrenato, non è un dottor Frankenstein, ma un designer quarantenne calabrese. Massimo Sirelli è tra i maggiori esponenti dell’arte applicata alla cultura del riuso: i suoi robottini diversamente elettronici li realizza solo con materiali di scarto raccolti nei mercatini delle pulci dopo una caccia al tesoro in scaffali, suk, ferrovecchi e cantine polverose ai quattro angoli del pianeta. Una volta assemblati, non resta che trovar loro una famiglia e bisogna essere molto convincenti per emanciparsi dalla palude delle liste d’attesa.

 

Massimo ha fondato infatti “Adotta un robot”, una casa di adozioni per “robot da compagnia” unica al mondo. Finora hanno trovato un nuovo tetto stabile affettivo circa duecento esemplari. Le regole per candidarsi sono stringenti. «Non bastano i soldi, urgono garanzie sentimentali», dice a L’Espresso. Per ambire al rango di genitore occorre compilare un form sul sito Internet dedicato: se si è fortunati, si otterrà a casa l’oggetto speciale dei propri desideri, con annesso «manuale d’uso e una serie di consigli del papà “biologico” (che sarei io) su come interagire con la fantasia con questi manufatti meravigliosi». Un distacco doloroso.

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«Costruirli, per me, è un atto d’amore». Latenze del cuore dentro la vile materia. La gamma è assortita. Per ciascuno c’è una scheda completa, comprensiva di altezza e larghezza, data di nascita, segni particolari e caratteristiche “anatomiche”. Luciano, 8,5 centimetri per 7,5, sprigiona «una grande voce in una piccola scatola» benché sia (non difetta d’autoironia) «più piccolino di un mio omonimo cantante». Gli garberebbe «scoprire una famiglia che ami la musica e voglia stare ad ascoltarmi dal mio palcoscenico preferito: il salotto». Aspirazioni legittime, per un esserino ricavato da una rara confezione di “pasticca dell’usignolo” e che sfoggia, a mo’ di testa, un trionfo di lenti tecniche di recupero. Vincon (45 per 45 cm) è venuto alla luce nel 2014 e il suo motto prediletto è: «Una buona parola cura più di una cattiva medicina».

 

Notevole il corpo, nonostante le dimensioni succinte: una scatola medica acquistata nell’omonimo e storico negozio di Passeig de Gràcia a Barcellona. Viene spesso paragonato al mordace Stewie Griffin: sarà che la sua testa (un’arcaica borsa per l’acqua calda in alluminio) può ruotare a 360 gradi, montata su un sistema di cuscinetti ad hoc. Ferraglie canaglie, unitevi! Decana del gruppo è anche Amanda Bertolini, 40 cm in verticale e in orizzontale, ama andare in bici e soprattutto i picnic: in principio, prima della genesi, era un vetero-contenitore di latta dell’omonima azienda dolciaria attiva, dal 1911, nel campo della produzione di lievito. Il salto nel vuoto tecnologico che si miscela al conforto per nulla pretenzioso del vintage, del bric-à-brac. Il sol dell’avvenire divampa alle nostre spalle. «Mi piace pensare che abbiano un retrogusto nostalgico. Ridefinisco i canoni estetici rifacendomi al passato: in fondo, domani saremo quello che siamo stati oggi in un percorso di strana evoluzione. Ci portiamo sempre dietro tracce e cicatrici». Cerebrali o “ventricolari” come quelle di Opperbot (15 cm per 10), un tipo seduttivo e introspettivo, lo chiamano Coppi, fuma la pipa e il suo guscio è racchiuso in un astuccio di tabacco per pipa, aroma soffice e fresco e note fruttate e floreali. Sintetici a modo loro, i robottini di Massimo Sirelli hanno fatto da testimonial a vari brand e sono comparsi in serie tv e film, come il recentissimo “Il filo invisibile” con Filippo Timi e Francesco Scianna. Inoltre sono stati ospitati in musei classici o a cielo aperto: li si possono tuttora incontrare a Dubai, sulla Jumeirah Road, un trittico domestico in vetrina con madre, padre e figlio pseudo-bionici e a grandezza naturale, davanti alla biblioteca nazionale. E quanto avrebbero smaniato di essere della spedizione, fossero stati un metro e rotti più alti, Nerone, che discende da una cassetta di liquirizia ma si professa «uno spirito libero e un viaggiatore curioso e impetuoso»; Camilla, faconda e dedita al gossip e non fraintendetela per un capo simile alle cornette del telefono d’antan, nelle sue vene scorre olio industriale per motori a scoppio rinvenuto in un deposito ferroviario in disarmo; Giulietto, che cavalca ingranaggi genetici pittoreschi e decisamente retrò per spiazzare la gente, la testa è un antico scolapasta di alluminio e antenna tv, il naso la maniglia di un rubinetto da esterni, le braccia ganci di fissaggio di impalcature edili, i piedi pezzi di pressofusione di fonderia. Archeologia del futuro.

 

«Non faccio figli e figliastri, sono legato a tutti alla stessa maniera», garantisce Sirelli: «Per realizzarli mi prendo tempi importanti di gestazione, attendo l’ispirazione». Il suo personalissimo metaverso ha avuto avvio nel 2014 «anche se io colleziono oggetti vecchi, rottami e tranci di modernariato da quand’ero ragazzino. Mettendoli insieme ho concepito i miei cyborg alternativi e mi sono presto reso conto che esistevano, che mi parlavano, che gli avevo impresso una nuova forma e una nuova vita, eternandone così la funzione in senso artistico». Nonché nella direzione ecologicamente lodevole dell’upcycling, il riciclo creativo: nella fattispecie la sensibilità è sia in entrata che in uscita. In chi vende, in chi compra. E non disdegna di riesumarli, i suoi gioielli fatiscenti nascosti, direttamente in strada, magari tra i rifiuti rigurgitati dalle onde su una spiaggia «e perciò giro organizzato con guanti e sacchi. Li ritrovo e li ripulisco. Ho messo a segno colpacci clamorosi. Ricordo la gioia dell’avvistamento di un’aspirapolvere gigante di metallo, a Scalea, a inizio lockdown: marciva in un cumulo di immondizia, nemmeno i netturbini ci avrebbero mai messo mano. Ho intravisto quella meraviglia e mi sono detto: “Devo averla”. Ci avevo già scorto un robottino dalle sembianze di un battello che sto forgiando adesso nel mio studio». Ci salirebbe di sicuro a bordo l’intrepido Alfredo (45 per 30 cm), che pare un maialino zampillato da una visione di Miyazaki. Il naso è un mestolo di ferro del Trentino-Alto Adige, la bocca un forma-scarpe riplasmato. In verità, è la sua intera massa muscolare a meritare lo status del capolavoro: se il blocco centrale è un barattolo di vernice che giaceva abbandonato nei boschi del parco della Reggia di Venaria a Torino, le orecchie sono lame di una motozappa e gli occhi la ruota e il tappo di un serbatoio di un’auto derelitta nel mare d’inverno.

 

A proposito dell’ex capitale sabauda: Massimo Sirelli ha vissuto lì a lungo ma è tornato a vivere a Catanzaro, la sua città d’origine, migrante di ritorno «per rendermi utile al mio territorio». Una decisione maturata dopo la quarantena globale del Covid-19 e una grave malattia che lo ha colpito l’anno scorso, i duri cicli di chemio, «e ora che comincio a stare meglio non voglio avere un minuto libero, ho tanti inediti amici di latta e coltivo la speranza di portarli in mostra in una grande città italiana». I golem, i Terminator e certi terrificanti avatar digitali prosperino pure al cinema e online. Che poi lui ci è cresciuto, coi robot autentici dell’età di mezzo.

 

«Guardavo senza posa Voltron, i Transformers, Mazinga, Jeeg Robot. Ho introiettato il loro fascino». Meglio meccanici e a molla che di puro silicio, però. Quando Čapek scrisse il suo dramma teatrale, cent’anni orsono, il vaso di Pandora era schiuso. Si affacciavano nell’immaginario collettivo i “robot universali di Rossum”, analoghi all’homo sapiens ma privi del suo corredo più prezioso: l’emotività e il libero arbitrio. Almeno in apparenza: finirono per insorgere contro di noi. Umani, molto umani, nell’accezione deteriore. Sullo sfondo i totalitarismi in incubazione e l’incipiente divinizzazione delle macchine. Spettri sempre in agguato. Un’equazione che non vale, tuttavia, per questi simulacri di risulta intrisi dell’anima di chi li ha disegnati e di chi li adotterà. Per loro resiste la prima legge della robotica teorizzata da Isaac Asimov: «Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno». Una presunzione d’innocenza. «La vita degli androidi è sogno», scrisse Philip K.