È accettabile che i mafiosi si trincerino dietro i «non ricordo». Ma è inaccettabile il silenzio di pezzi delle istituzioni

No che non mi sentirò appagata dall’esito dei processi sulla morte di mio padre e, soprattutto, su quel che è successo dopo: il più grande depistaggio della storia, come è stato definito. E so che tanta parte dell’opinione pubblica la pensa esattamente come me.

 

Nonostante l’encomiabile sforzo di pochi, pochissimi, magistrati come Stefano Luciani e Gabriele Paci, la verità giudiziaria non potrà dare conto dell’omertà di Stato che ha coperto e copre chi ha lavorato nelle istituzioni per inquinare tutto. Più mi addentro in questa melma e più il marcio risulta evidente. So però che anche questa è una verità, patrimonio ormai di tutti. O quasi.

 

È accettabile, fa parte della loro natura, che i mafiosi si trincerino dietro i «non ricordo». Ho incontrato i Graviano, loro negano perfino la loro stessa esistenza, negano l’evidenza. I mafiosi preferiscono morire in galera anziché parlare.

 

È inaccettabile però constatare il silenzio di pezzi dello Stato. I “non ricordo” di magistrati e poliziotti. L’ostinata negazione delle loro omissioni e delle loro manipolazioni. Per queste, non solo non hanno pagato ma, al contrario, sono stati premiati con riconoscimenti di carriera. Sono tutti giunti all’apice dei loro uffici. E anche questa è una verità che ci viene spiattellata davanti con violenta evidenza.

 

Nessuno può veramente credere che solo un manipolo di poliziotti abbia depistato le indagini sulla strage senza avalli e coperture da parte di chi ha orchestrato tutto. Senza connivenze di poteri istituzionali e della magistratura. Perché in definitiva è per questa gente che mio padre è morto. Sono le stesse persone, gli stessi settori delle istituzioni che hanno ostacolato, isolato e mandato a morire un uomo che aveva una incrollabile fede nello Stato.

 

Per questo, anche nell’amarezza, non resta che andare avanti, facendo tesoro di quanto abbiamo capito fin qui. La nostra consapevolezza è la spinta che mi porta a rifuggire dalle commemorazioni di facciata, anche da quelle con il crisma dell’ufficialità, e aderire con slancio, al contrario, a tutte le occasioni di confronto diretto e franco con i giovani delle scuole.

 

Ho ricevuto nei giorni scorsi l’invito a partecipare a un evento da parte del procuratore generale della Cassazione. Quando mi ha cercato, credevo volesse darmi conto delle doverose iniziative istituzionali adottate per sanzionare chi ha permesso che nelle istituzioni si lavorasse contro la verità. Mi ha spiegato che la prescrizione impedisce qualsiasi intervento. Ho ribattuto che dovrebbe sentire la responsabilità di spiegarlo al Paese che ha il diritto di sapere. Dovrebbe avvertire l’onere di informare tutti noi sulle ragioni che non permettono di punire gli errori commessi. Sarebbe quantomeno un atto di onestà intellettuale.

 

In assenza di questo, ogni altra richiesta suona come offensiva. Se il cancro della menzogna e dell’omertà infesta i palazzi, c’è una speranza che viene dal senso di giustizia e dalla purezza che constato nei giovani che incontro. Raccolgo con loro il principale insegnamento di mio padre e li invito, malgrado tutto, a considerare lo Stato come amico e non come un nemico. Perché non possiamo correre il rischio di cedere alla sfiducia, di cadere nel disfattismo. Tradiremmo il senso dell’impegno di Paolo Borsellino.

 

Noi stessi, noi figli siamo andati avanti e crediamo ancora nell’essenza di quello stesso Stato in cui credeva mio padre. Nell’impegno per fare della nostra terra, della nostra città un posto dove è bello vivere e per il quale vale la pena spendersi.

Dobbiamo tutti quanti andare avanti, andare oltre. Senza mai dimenticare. E se il depistaggio rende impossibile il miracolo della completa verità giudiziaria, abbiamo già tutti gli elementi per giudicare e comprendere ciò che è realmente accaduto.