Una scrittrice sulle navi delle Ong. Il coraggio di mettersi in gioco. E un groviglio di sigle: per addomesticare lo sgomento. Senza perdere umanità

A tre settimane dall’invasione russa, già dieci milioni di persone hanno lasciato l’Ucraina. Abbiamo davanti la più grande emergenza umanitaria in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale. Sarà molto facile per i sovranisti invocare l’accoglienza solo per chi scappa da un conflitto in casa nostra. Già incominciano a vedersi pericolosi distinguo a sfondo razzista, come se ci fossero profughi di serie A e di serie B. Le frontiere si aprono, ma non agli africani. In questa tragedia, è difficile puntare l’attenzione sull’altra tragedia che ci riguarda altrettanto da vicino: il Mediterraneo.

È facile invece immaginare quali conseguenze pagheranno le persone che fuggono dalla Libia e quante campagne di odio dovranno subire. Questo potrebbe succedere perché di Mediterraneo si parla molto, ma le persone che salgono a bordo delle navi umanitarie e vedono con i loro occhi quello che succede rimangono poche. Ho fatto tre missioni in mare, per questo giornale: due con la Mare Jonio di Mediterranea nel 2018 e nel 2019 e una con la Ocean Viking di Medici Senza Frontiere e Sos Méditerranée nel 2020. E dopo tanti mesi in Sar Libica ho capito che persino i termini tecnici si possono vivere con umanità.

Body bag (sacchi da cadavere) Quando si parla di Mediterraneo, tutti immaginiamo persone che affogano nella solitudine più totale, in un mare sterminato. Invece si può morire anche in dieci centimetri d’acqua. E nemmeno da soli. Con i piedi degli altri sopra di te. L’ultimo gesto, il più estremo, è mordere le gambe che hai intorno. Per dire che esisti o che non ce la fai più a esistere.

In mare aperto, dove l’ossigeno quasi stordisce, si può morire soffocati. I posti in stiva costano meno, di solito là sotto finiscono i subsahariani. La botola resta aperta, ma il fumo del motore riempie quello spazio di pochi metri e uccide lentamente. Sei nel Mediterraneo sterminato e ti mancano dieci centimetri cubi d’aria.

Deck (ponte di coperta) Il ponte di coperta è il regno degli sbalzi d’umore. Sono tutti ragazzi, ma sono ragazzi traumatizzati, quindi appena consegni un altoparlante li vedi ballare come in discoteca e litigare per scegliere la canzone su YouTube, e un attimo dopo accasciarsi senza sguardo e senza parole, o piangere con la testa nascosta da una coperta. Il deck è il regno dei bipolari.

Il deck è un luogo di dolore. Tutto il dolore individuale si ammassa e si concentra, diventa un dolore unico, collettivo. La folla emana una specie di angoscia aerea, si alza dal ponte l’esprit della disperazione come si alza il vapore dal mare - persino quando ballano, persino quando dormono. E tu lo respiri.

Il ponte di una nave è un mondo di ventenni e di adolescenti. Spesso ce lo dimentichiamo. Li chiamiamo naufraghi o migranti o rifugiati. Ma potremmo usare anche altre categorie. Salvati centosessanta ventenni, trenta adolescenti e dieci bambini. Invece no, tutta l’attenzione, tutta la terminologia, si concentra fra minori e non minori, la burocrazia non ha capito niente del ponte di una nave. Il deck è giovane: non ha paura di morire come non ha paura di innamorarsi.

Distress (fase di pericolo) Mi sono imbarcata e ho visto il distress con i miei occhi. Vedi una prua rialzata, perché quando i tubolari sono sgonfi la prua si piega e si solleva. Vedi un barchino di legno inclinato, che oscilla. Ma c’è una cosa che non si vede e si può capire solo da lì, perché si sente: il distress è un odore, terribile e inconfondibile. Lo senti da lontano, appena ti avvicini un po’ con il rhib (vedi sotto), anche se sei in mare aperto. È l’odore di quella melma che stagna sul fondo del gommone. È fortissimo e spaventoso, è l’odore della disperazione.

Lybian Coast Guard (Guardia Costiera libica) «Ci hanno coperti di benzina e tenevano l’accendino in mano», raccontava Ammar: «Se non venite con noi, se fate resistenza, vi diamo fuoco. Un ragazzo si è buttato in mare, è morto davanti ai nostri occhi». «Quando siamo saliti sulla nave, la Guardia Costiera libica ci ha picchiati. E poi ci ha portati nella prigione di Zawiya».

Patrol (pattugliamento) Il mare non è tutto uguale. Lo capisci quando navighi in Sar libica, intorno alle piattaforme petrolifere. È uno dei rari luoghi al mondo che si possono ancora definire accessibili a pochi. Sicuramente è più frequentato l’Everest. È il paesaggio più sinistro che abbia mai visto, e provoca allucinazioni. L’ho scoperto di notte, in barca a vela. Il mare nero, che annulla ogni confine fra l’acqua e un cielo senza luna, è persino rassicurante al confronto. Quell’inferno ti brucia la vista. E tu hai le visioni dei dannati. Le piattaforme sparano fuoco e al buio sembrano fari. Le onde all’orizzonte disegnano un profilo simile a una costa montuosa e frastagliata. E di colpo capisci cosa possono provare loro, seduti in un gommone, vedendo quello che vedi tu - o credi di vedere. È la terra. Eccola lì. È l’Italia, per forza. Che altro possono essere quelle montagne a picco sul mare e quelle luci? Invece non sono montagne, sono masse d’acqua che gonfiano l’orizzonte. E quelli che sembrano fari in realtà sono torce, fiaccole che bruciano gas in cima a camini piantati in mezzo al nulla. Sei in mare aperto.

Pos (Porto Sicuro) Il problema è che questo concetto che ci sembra astratto - e per questo diventa facilmente ideologia, buonismo o cattivismo, politica o ragion di stato - dal bridge non lo è. Basta scendere le scale. Per tutti noi, la guerra è qualcosa di lontano. Con la tortura è ancora più difficile. Ne sentiamo parlare, ce la propongono i documentari come i thriller, e ci sembra la stessa cosa: viene percepita come fiction anche quando è realtà. Chi ha mai parlato con una vittima di tortura? Qualcuno ha amici che sono stati torturati? E così termini come porto sicuro o Place of Safety si riducono a idee per cui scannarsi. Sul bridge non sono idee, basta scendere le scale.

Rescue (soccorso) Nessuno ci pensa, ma un rescue alla fine è questo: ci sono due mondi che si guardano, da una barca all’altra. E, guardandosi, si fanno domande. Sia di qua che di là. È qualcosa di molto vicino alla fantascienza, nelle prime ore. Intorno non c’è niente. Due gruppi di sconosciuti capitano uno di fronte all’altro. E qual è la prima cosa che fanno? Si guardano. Con stupore, paura, speranza. Un rescue è uno scambio di sguardi da cui sorge una nuova prospettiva.

Rhib (gommone di salvataggio) «Una volta ho ributtato un migrante in mare», mi ha detto Valerio Nicolosi. «Si era tuffato per nuotare verso di noi e salire per primo sul rhib. In mezzo secondo mi sono reso conto che stavano per tuffarsi tutti. Allora l’ho preso e l’ho ributtato in acqua». Ho capito così, per la prima volta, la Sar. Forse, solo in momenti così ci si avvicina davvero al nucleo dell’esistenza. A quell’opzione di devastante semplicità: vita/ morte. Due possibilità che non sono separate nemmeno da una congiunzione, ma da un trattino, velocissimo. Rapido come il gesto di chi sta sul rhib.

Target Come si trova un target, che sia un gommone o un barchino, in mezzo all’immenso Mediterraneo? Come si trova senza avvisi di alert, perché il distress a quanto pare non è più una priorità? Senza un coordinamento marittimo, perché nessuno vuole più coordinare, tranne la Libia, paese da cui fuggono? Senza aerei militari europei che te lo indichino? In questo vuoto, in questa ignoranza, si è insinuata la propaganda. Taxisti del mare. Vicescafisti. Pirati. Assassini. La domanda lavora latente, la risposta è più complessa di un insulto.

Watching (ricerca e avvistamento con il binocolo) Nel Mediterraneo la vita la cerchi, la perdi o la trovi. Senza orpelli, scappatoie, ti lascia a nudo confronto con una nuda alternativa, ti spoglia come l’acqua. La chiave per capirlo non è il sentimento della morte. È il sentimento della vita.