Filomena Rosotta è nell’esercito, Martina Spezzi fa la volontaria all’Unione Ciechi. A cinquant’anni dall’istituzione del servizio civile, a 17 dalla fine della leva obbligatoria

È caduto un ago durante il laboratorio di cucito. Intorno a un tavolo ingombro di stoffe, sei donne non vedenti e ipovedenti stanno realizzando bambole per un mercatino. Martina Spezzi, 21 anni, può cercare l’ago sul pavimento perché ha il privilegio della vista. Da agosto è volontaria del servizio civile presso l’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti. E in questa stanza della sede romana, vicino a un quadro che rappresenta note musicali, annuncia festosa di aver trovato l’ago.

Sono trascorsi cinquant’anni dall’istituzione, nel dicembre 1972, del servizio civile come obiezione di coscienza al servizio militare. Oggi si chiama servizio civile universale, Martina ha scelto di svolgerlo con l’Uici perché ha persone ipovedenti in famiglia: «Diciamo che ci vivevo già con questa cosa. Ma tutti dovrebbero svolgerlo qui, secondo me: è una crescita personale proprio». Il suo compito principale è l’accompagnamento assistito. Dove serve: a fare una visita medica, al mercato, alla posta. È un servizio di cui l’Uici si occupa da anni per conto del Comune di Roma, in convenzione, attraverso una rete di volontari che copre turni dalla mattina presto fino a sera.

 

Dopo il diploma alberghiero, Martina ha iniziato l’università. È al secondo anno di Infermieristica, vuole fare dell’assistenza il suo mestiere. Di recente ha avuto il Covid e non è potuta uscire, le è pesato allontanarsi dagli assistiti: «Si crea un rapporto, ci telefoniamo, sono come nonni. Insomma mi mancavano». Il servizio mette auto a disposizione, ma lei preferisce spostarsi a piedi. «A volte conoscono le strade e mi guidano loro». Accompagna fino agli appartamenti, se occorre. «Ci sono persone che non hanno mai visto la loro casa. Allora gliela descrivo». Sorride: «In effetti sto sempre a descrivere».

Linea C, cambio, linea A, cambio, linea B. Tre metropolitane, dalla periferia est di Roma, solo per raggiungere la sede in centro. Martina lavora 5 ore al giorno, dal lunedì al venerdì, per 444 euro netti al mese. Non si fanno i dodici mesi di servizio civile per soldi, ma la cifra lascia sbalorditi comunque. «Il budget è rimasto indietro, a quando era di 800.000 lire», scuote la testa Giuliano Frittelli, presidente della sezione Uici dell’area metropolitana di Roma. «Il nostro bando chiamava 90 persone e ne abbiamo una quarantina». Non si riesce a soddisfare ogni richiesta. L’Uici a Roma ha circa 1.200 soci ma il servizio si rivolge a tutti i residenti, quindi vanno aggiunte diverse centinaia di persone. Frittelli parla da dietro una scrivania, su cui troneggia una vecchia macchina per scrivere in braille. Lo inorgoglisce il servizio d’accompagnamento assistito: «È un fiore all’occhiello per Roma, c’è in poche altre città».

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È anche un lavoro delicato, oltre che necessario. «Impegnativo», dice Martina. La dimensione psicologica, la responsabilità di una persona che si affida, gli imprevisti. Lei e gli altri giovani in servizio civile all’Uici hanno una chat, si confrontano. Impegnativa è Roma. Martina esce per accompagnare una delle donne del corso di cucito. Vediamo così lei e la signora Maria, 76 anni, muoversi a braccetto tra monopattini, marciapiedi spaccati, auto parcheggiate dove non si può. «Attenta, c’è un po’ di salitella». Devono arrivare a Colli Albani, conviene fare più strada a piedi invece che affrontare, alla stazione Termini, il caos di un cambio di linea metro. Chiacchierano, parlano di sushi, che piace a entrambe. Martina ogni tanto si interrompe per avvertire: «Marciapiede», o: «Eccoci», quando scatta il verde al semaforo. Prendono la metropolitana, sempre a braccetto. Le persone intorno si comportano a seconda delle sensibilità, c’è chi agevola il tragitto e chi neanche si sposta.

L’espressione di Filomena Rosotta la fa ancora più giovane dei suoi 20 anni. È nata dopo l’attacco alle Torri Gemelle e si è arruolata lo scorso ottobre, quando la guerra in Ucraina già spingeva sull’Europa. Viene da Aversa, provincia di Caserta: «L’unica femminuccia di quattro figli. L’unica ad arruolarsi. Ho portato io la novità», ride: «Ai miei fratelli, chiedono: come mai ha scelto questa vita?». La leva obbligatoria è stata sospesa nel 2005: si sceglie, in effetti, di essere in una caserma come questa di Cassino (Frosinone), ai piedi dell’abbazia.

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Mena ha la mimetica col cognome cucito all’altezza del cuore, sulle maniche lo scudo dell’Italia e quello del reggimento. L’80°, uno dei quattro di addestramento volontari che avviano all’esercito. Per appartenere al primo blocco di Vfp1 del 2022, ha superato test di cultura generale, test fisici, test psicologici. Concluse le undici settimane di formazione, passerà in area operativa o logistica, il tutto dura un anno. L’esercito è stato una folgorazione a tredici anni, il giorno in cui vide alcuni militari impegnati nell’Operazione strade sicure: «Mi misero una sicurezza addosso». Si è diplomata al liceo scientifico, più avanti le piacerebbe prendere la laurea al corso per sottufficiali. Il primo obiettivo comunque è diventare maresciallo, anche per insegnare ciò che stanno insegnando a lei.

Le donne sono state ammesse nelle forze armate nel 1999. In questo reggimento sono quasi un centinaio, Mena ci mostra la sua camerata dove alloggiano in otto. Sveglia alle 6, 45 minuti per prepararsi: «Dev’essere tutto perfetto, il posto branda e l’armadietto. All’inizio le difficoltà ci sono state. A casa ero la prima a essere pronta quando bisognava uscire, qui devo essere ancora più precisa, ogni minuto è prezioso». Il suo posto branda è in ordine, a formare il «cubo». La coperta di lana mostra le iniziali dell’esercito italiano. Sul materasso c’è una sedia. Non vediamo una scrivania, chiediamo a Mena dove si siede e allora alza, dall’ultima parte del letto, un ripiano di legno: «Ecco. Qui studio». Che cosa? «Il fucile, la bomba a mano», spiega, «le tradizioni del nostro reggimento». Tiene i capelli raccolti secondo la regola, non può truccarsi né portare monili, l’unica ammessa è la fede nuziale. Ci mostra il suo armadietto. In basso, il comparto delle scarpe, dove la sera ripone i pesanti anfibi. Alle 22,15 il contrappello, qualche minuto per mettersi a letto. «Io e la mia collega», indica il posto branda accanto al suo, «siamo le prime ad addormentarsi».

A comandare il reggimento è il colonnello Valerio Lancia, classe 1974. Mentre ci fa strada per entrare nel suo ufficio, si ferma: saluta la bandiera di guerra, che rappresenta l’unità ed è custodita in una teca. «Qui si diventa militari», dice poi, con un gesto ampio che raccoglie la caserma. Qui, allievi e allieve sono in 433, hanno tra i 19 e i 25 anni e appunto sono alla prima esperienza militare. Tre su quattro provengono da Sud e Isole. Ricevono vitto, alloggio e circa 1.050 euro netti al mese. «Imparano le basi, non solo pratiche ma anche etiche. Sento una responsabilità come da genitore, perché è coinvolto un piano umano».

Di ripristinare la leva obbligatoria si è parlato negli ultimi mesi, benché la professionalizzazione abbia impresso una svolta che ha cambiato le cose in profondità. «Vengono qui perché vogliono starci. Per chi è nel mio ruolo, significa avere maggior facilità a lavorare ma anche una difficoltà in più, perché non devi deluderli». Ogni giorno il comandante condivide la tavola a mensa con tre allievi: «Per conoscerli, per capire. Aiutare ad ambientarsi. L’impatto può essere duro, per esempio per la condivisione degli spazi. Ma da quella condivisione nasce il gruppo, il Noi». Allievi e allieve sono ritenuti all’inizio di un percorso. Il comandante lo illustra anche in rapporto alla scelta che cinquant’anni fa obiettava al servizio militare. «Questo primo anno gli permette di rimanere, mentre il servizio civile è a termine. Ma entrambe sono esperienze di altruismo e solidarietà. Entrambe servono il Paese, sta già nel nome».

Mena stamattina ha già seguito una lezione teorica, poi una conferenza sui compiti dell’opera che assiste gli orfani di militari dell’esercito. Poi ha svolto attività fisica all’aperto e in palestra, dove ha imparato la tecnica per salire la corda. Il tempo libero è poco, a lei piace occuparlo leggendo: «Mi piacciono le storie che mi tirano su di morale». Usciamo dagli alloggi. Mena ci dice che può tornare a casa ogni weekend, se ottiene il permesso di fine settimana: «Se ti comporti bene. Per ottenere una cosa devi guadagnartela».

Nel piazzale dell’alzabandiera risuonano le marce. Presto allievi e allieve giureranno fedeltà alla Repubblica, a concludere queste prime settimane. Lei si ferma per indossare un casco, imbraccia un fucile, e la seguiamo in una stanza buia. È un simulatore di tiro: c’è uno schermo su una parete, sensori intorno a Mena, il fucile è caricato ad aria compressa. Si accovaccia e inizia a sparare contro un bersaglio sullo schermo. I risultati dei tentativi compaiono su un computer e danno un punteggio. Quando torniamo alla luce, Mena ci spiega che le piace davvero esercitarsi a sparare. Sorride e sembra avere meno di vent’anni, dice: «Mi sento a mio agio».