Per i “tecnopopulisti” sarebbe la soluzione a tutti i mali della politica, per tutti gli altri solo un nuovo problema. Ma quello che fino a qualche anno fa era solo un dibattito teorico, in qualche paese inizia a prendere forma. Con non pochi rischi

È tempo di automatizzare la democrazia, rimpiazzando la nostra attuale classe politica con degli algoritmi? Niente affatto, ma il sogno proibito dei soluzionisti tecnologici resta: risolvere le storture e il logorio della politica umana con l’intelligenza artificiale. Non questo o quel problema politico: la politica, tutta.

 

«In un periodo storico in cui la fiducia nei politici è bassa e l’efficienza dei governi discutibile», ha scritto sull’Economist il direttore esecutivo di The Fourth Group, Alvin Carpio, già nel 2018, «non staremmo meglio» se sostituissimo gli eletti umani con «macchine e robot?». Svariati cittadini sono pronti a dirsi d’accordo: secondo un sondaggio del Center for the Governance of Change dell’Università Ie in Spagna, uno su quattro in otto paesi europei vuole sia l’Ia a prendere importanti decisioni politiche. Molti tra i fautori dell’ipotesi dell’Ia “forte” - quella cioè di “Terminator” e di “Her”, capace di autocoscienza, intelligente come e anzi molto più di noi - addirittura lo teorizzano.

 

Perché come potrebbe un essere umano, con tutti i suoi limiti e le sue imperfezioni, competere con l’algida, imperturbabile perfezione decisionale di un presidente del Consiglio artificiale? I politici in carne e ossa sono, secondo questa vulgata intrisa di populismo tecnologico, corrotti e vanitosi: una macchina no, è sempre oggettiva. I politici hanno “perso il contatto con la realtà”: l’Ia, al contrario, sa tutto di ciascuno di noi. I politici umani hanno, infine, facoltà cognitive limitate: ma non quelli artificiali, che possono leggere, analizzare e confrontare migliaia di proposte di legge in un baleno. Già oggi si potrebbe sviluppare una idea “audace per rimpiazzarli”, ha teorizzato dunque in una conferenza Ted César Hidalgo, classe 1979, cileno, direttore di un centro di ricerca all’Università di Tolosa, prima a Harvard e al Mit: sostituire la democrazia rappresentativa con una diretta digitale. Una democrazia nuova, in cui la rappresentanza diventa artificiale (non con una persona fisica ma virtuale), ma il rapporto tra cittadino ed eletto è di uno a uno: una chatbot per ogni elettore. Carpio, in un altro Ted Talk spiega che sarebbe «un po’ come avere un super-politico, sempre connesso a tutti i dati del mondo, e capace di prendere decisioni sulla base di tutto quanto hai postato su Facebook».

 

Questo potrebbe consentire, al limite, di rendere obsoleto il governo per come lo conosciamo oggi; Forbes, non a caso, ne pronunciava la “fine” per mano della “regolamentazione algoritmica” già nel 2019, sostenendo con l’influente Tim O’Reilly che o i governi cominciano a somigliare ad algoritmi di Ia capaci di apprendere continuamente dai propri errori e aggiornarsi, o sono destinati a perire. Obsoleto diventerebbe in quest’ottica perfino il voto. «Una democrazia automatizzata potrebbe rimpiazzare sia i politici che le urne elettorali», dice Carpio. Del resto perché recarsi alle urne, se i votanti non possono che confermare decisioni che il proprio rappresentante virtuale già conosce?

 

La mente corre a un racconto di Isaac Asimov, “Franchise”, che già nel 1955 preconizzava un’era in cui una unica mente digitale, Multivac, avrebbe ridotto l’esercizio elettorale al voto di un solo essere umano, scelto dalla macchina come rappresentante dell’intero elettorato.

 

In Giappone Michihito Matsuda, candidato nella realissima competizione politica per il sindaco di Tama City, a Tokyo, ha sostenuto qualcosa di molto simile avanzando la candidatura del primo “sindaco Ia”. La macchina, informata dalle preferenze di tutti i cittadini, avrebbe non solo preso decisioni politiche migliori, ma avrebbe anche “reso possibile”, ha dichiarato Matsuda in un’intervista, «ascoltare le storie di 10 o 100 milioni di persone alla volta».

 

E questo, a sua volta, avrebbe consentito di «ridurre significativamente il numero di parlamentari e consiglieri locali»: tanto l’Ia ascolta tutti comunque. Casi simili, al limite tra la provocazione intellettuale e la denuncia politica, si sono verificati negli ultimi anni in diversi altri paesi.

 

Il più recente è il “Partito Sintetico”, che mirava a correre nelle elezioni di novembre in Danimarca con una piattaforma decisa dall’Ia e con un algoritmo, “Leader Lars”, addestrato per rappresentare le posizioni più marginali nel dibattito politico: quelle del 20% che di norma non vota. Ma già nel 2017 il presupposto tecnopopulista ha portato a un “primo politico Ia” , di nome “Sam”, in Nuova Zelanda. L’anno seguente in Russia, poi, una rivisitazione politica dell’assistenza virtuale del motore di ricerca Yandex, “Alisa”, aveva cercato provocatoriamente di sfidare Vladimir Putin promettendo di portare “il sistema politico” russo «nel futuro, costruendolo sulla sola base di decisioni razionali prese grazie ad algoritmi chiari». Se il dittatore russo è isolato nelle sue stanze, Alisa è invece «il presidente che ti conosce personalmente», che «sa tutto dei tuoi problemi»: sì, proprio dei tuoi. E se Putin pare avere perso il senno, ecco che Alisa «dipende dalla logica, non è guidata da emozioni, non cerca vantaggi personali e non emette giudizi». Inoltre, sarebbe dotata di «un intelletto che funziona sette volte più veloce di un cervello umano», ha scritto il Moscow Times, qualunque cosa significhi.

 

L’idea appartiene più al regno dell’arte e della comunicazione che alla politica, ma nel frattempo pare che i dati finiti in pasto ad Alisa le abbiano insegnato a schierarsi dalla parte delle «prigioni segrete sovietiche» e dello «sparare ai nemici del popolo». Segno, se mai servisse, che il progetto di risolvere la politica dissolvendola nella tecnologia è destinato a fallire. Peggio: a fallire mettendosi al servizio di chiunque voglia mascherare il proprio umanissimo autoritarismo dietro la presunta, e inesistente, superintelligenza della macchina. E la pretesa di risolvere tutto tramite intelligenza artificiale non solo ignora gli svariati problemi, concettuali e applicativi, che incontrano applicazioni sociali dell’Ia ben più circoscritte e modeste, ma proprio non conosce il ridicolo. Come altro definire l’idea, espressa in un commento su The Hill dell’ex analista del Dipartimento di Stato Marik von Rennenkampff, che l’intelligenza artificiale possa «salvare l’America» e risolverne la polarizzazione facendo risorgere i padri fondatori tramite il machine learning, così da poterli interpellare e sfruttarne la saggezza? Non serve l’ologramma di George Washington, per rispondere.