Trent’anni fa il negoziato che pose fine alla guerra civile ma ora, complici gli interessi legati allo sfruttamento delle risorse, si riaccende la tensione

Charlie Chaplin cammina verso l’orizzonte dopo quelle parole sussurrate a Paulette Goddard, la “monella” della scena finale di Tempi moderni: «Su con la vita, non ti dare per vinta; ce la faremo». Un appello evocato il 4 ottobre 1992, il giorno della pace in Mozambico. Firmata però a Roma, proprio 30 anni fa, nella sede della Comunità di Sant’Egidio a Trastevere, con una cerimonia trasmessa in diretta televisiva nel Paese africano, in un altro emisfero.

 

A pronunciare quel «ce la faremo», immaginando i villaggi del Mozambico che si sarebbero risvegliati l’indomani in un Paese che provava a rimettersi in cammino, era Mario Raffaelli, già sottosegretario agli Esteri nei governi di Bettino Craxi, Giovanni Goria e Ciriaco De Mita. Dopo aver presieduto la sezione italiana dell’Ong socio-sanitaria Amref, oggi è tornato in politica con Azione, ma in tanti lo ricordano per il ruolo di negoziatore in Africa. «La sera di quel 4 ottobre, ricevetti la telefonata di José Luis de Oliveira Cabaço, un figlio di coloni portoghesi che avevo conosciuto quando studiava Sociologia a Trento e che era poi tornato in Mozambico, diventando un insospettabile agente del movimento indipendentista e in seguito un ministro nel primo governo del Frelimo, il Frente de libertação de Moçambique; mi chiamò dalla capitale Maputo, aveva ascoltato il mio discorso e mi disse: sì, ce la faremo». Ma cosa resta degli Accordi di pace di Roma, siglati dopo una trattativa durata 27 mesi, con Raffaelli primo firmatario per il governo italiano al fianco di Andrea Riccardi e di Matteo Zuppi della Comunità di Sant’Egidio e poi ancora di monsignor Jaime Pedro Gonçalves, all’epoca vescovo di Beira, una roccaforte dei guerriglieri della Resistência nacional moçambicana (Renamo)? «Tra le due parti oggi non c’è conflitto militare, sono entrambe rappresentate in Parlamento e quell’intesa resiste», risponde Raffaelli, che pure nel 2014 è tornato a mediare con successo dopo mesi di rinnovate tensioni, reclutamenti nella foresta e scontri a fuoco. «Uno dei passaggi decisivi era stato il riconoscimento reciproco: il Frelimo considerava quelli della Renamo “bandidos armados” e a loro volta i guerriglieri ritenevano illegittimo il governo, di ispirazione marxista-leninista».

[[ge:rep-locali:espresso:367849510]]

Caduto il Muro di Berlino e finita la Guerra fredda, il contesto internazionale era cambiato. Non c’era più lo scontro tra Urss e Stati Uniti e anche il regime segregazionista del Sudafrica, che aveva ormai avviato il dialogo con Nelson Mandela, spingeva per un’intesa. Il negoziato poteva partire ma servivano le parole giuste. Nel documento sottoscritto a Roma si riconosceva allora l’appartenenza di entrambe le parti alla «comune famiglia mozambicana». Una formula vincente, che ha garantito anni di pace, ma che oggi è messa in discussione. Lo raccontano le cronache che arrivano dal Nord del Mozambico, in particolare dalla provincia di Cabo Delgado, una regione a maggioranza musulmana, tra le più povere del Paese, la stessa dove era divampata la lotta armata contro il dominio portoghese.

 

È il 2017 quando cominciano incursioni, esecuzioni sommarie e violenze di nuovi gruppi ribelli. Si dice che a colpire siano gli “Shabaab”, una parola che in arabo vuol dire “giovani”, già da tempo il nome di una formazione islamista in armi contro il governo della Somalia. In pochi anni a Cabo Delgado le persone costrette a lasciare le proprie case sono 800mila. E con i raid e le occupazioni armate arrivano le rivendicazioni e le bandiere nere: quelle del gruppo Stato islamico. Uno degli episodi salienti è l’assalto all’Hotel Amarula, nella località di Palma, nel marzo 2021. Tra gli ospiti dell’albergo, nel resort vicino al mare, ci sono anche manager e tecnici stranieri. E ad appena dieci chilometri sono in costruzione impianti per la liquefazione del gas naturale di un valore stimato di 20 miliardi di dollari. I giacimenti di idrocarburi, offshore, sono tra i più promettenti al mondo. Sono stati scoperti tra il 2011 e il 2014, negli stessi anni dell’intervento militare del Kenya in Somalia contro gli Shabaab e di una serie di operazioni di polizia ordinate dal governo di Nairobi per contrastare il proselitismo di imam e gruppi di matrice jihadista nelle regioni costiere a maggioranza musulmana.

 

Le tensioni viaggiano verso Sud, in riva all’Oceano Indiano, lambendo la Tanzania e l’arcipelago di Zanzibar fino al Mozambico, l’eldorado del gas. In Italia se n’è parlato di recente anche per l’uccisione di una suora comboniana, Maria de Coppi. La sua missione, mai abbandonata, neanche negli anni della guerra civile, è stata assaltata da un commando di uomini armati il 6 settembre. L’episodio si è verificato nella provincia di Nampula, più a Sud rispetto a Cabo Delgado. Secondo Raffaelli, però, «il conflitto resta molto diverso da quello combattuto fino a 30 anni fa, anche perché è localizzato in un’area specifica del Paese». Se uno dei nodi è la distribuzione dei proventi del gas, oggi l’Italia ha un ruolo. Tra le multinazionali dell’energia titolari di concessioni in Mozambico figura Eni.

A differenza dell’americana Exxon Mobil o della francese Total Energy, che ha puntato sul progetto di Palma, temporaneamente sospeso per ragioni di sicurezza, il gruppo italiano ha concentrato le sue attività offshore. La scommessa è strategica: entro fine anno è previsto l’avvio della produzione di gas liquefatto in un impianto galleggiante che può ospitare fino a 350 persone e ha a disposizione un giacimento da 450 miliardi di metri cubi. Ma davvero le risorse naturali rischiano di alimentare instabilità? «La componente gas può essere una concausa e un moltiplicatore del conflitto ma non la sua origine», risponde Raffaelli. «Il potere del Frelimo si è sempre fondato sull’alleanza delle zone del regno di Gaza al Sud e i makonde, una comunità di tradizioni guerriere con base a Cabo Delgado: oggi il timore è che alcuni gruppi si sentano esclusi, ad esempio i makua, e che la conflittualità aumenti». Ne parla anche don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm, una Ong padovana che da anni opera nella provincia a tutela della salute materno-infantile e presta ora assistenza anche nei campi di sfollati. «Può accadere che ci siano fasce della popolazione che ricevono più benefici di altre, per esempio dei pescatori sulla costa, che potrebbero risultare penalizzati», avverte il sacerdote. «Il tema è come gestire un grande intervento offshore anche sulla terraferma, rispetto a un’economia di sussistenza che esisteva prima». Un monito, questo, che vale anche per altre regioni del continente, dal Corno d’Africa al Sahel. «Il problema è che le questioni di ingiustizia sociale, aggravate magari da espropri di terre o risarcimenti inadeguati, possono essere strumentalizzate anche da gruppi terroristici», ragiona don Carraro.

 

In Mozambico il governo ha dato una risposta militare chiedendo poi il supporto di altri Paesi africani come il Ruanda, che a Cabo Delgado ha inviato un contingente. È possibile che anche per questo alcuni gruppi ribelli si siano spostati più a Sud, verso Nampula, dove è stata uccisa suor De Coppi. «Dopo il suo assassinio c’è stata una rivendicazione dello Stato islamico e bisogna considerare che il messaggio jihadista è cominciato a penetrare dal Kenya e dalla Tanzania già anni fa, durante una delle fasi più acute del conflitto in Somalia», ricorda Raffaelli. Quella Somalia per cui il negoziatore pure si era impegnato: «Non andò bene, perché gli americani imposero una risposta tutta militare e oggi vediamo com’è andata, con i raid con i droni e gli Shabaab che controllano ancora le aree rurali».

Un precedente che l’Unione Europea dovrebbe considerare, pur nel tentativo di assicurarsi forniture di gas alternative a quelle russe; intanto, i suoi stanziamenti per il training e l’equipaggiamento anti-terrorismo dell’esercito del Mozambico arriveranno fino a 104 milioni di euro.