L’annuncio della proclamazione per il 2025. Un’occasione per rievocare aneddoti e memorie. Ma anche per sviluppare progetti di collaborazione finanziati con milioni di euro

Era permesso portare un chilo di caffè per ogni lasciapassare. Ma a volte ne serviva di più. A quei tempi c’erano ristoratori che lo chiedevano per farsi pagare i matrimoni. Una volta mi lagnai con alcuni doganieri che mi conoscevano: un loro collega, a un altro valico, non mi aveva fatto passare per appena mezzo chilo in più che avrei portato a mia nonna, spiegai. E intanto pregavo Dio che non mi facessero aprire il bagagliaio: lì, ne avevo nascosti altri trenta».

È trascorsa una sessantina d’anni, ma Jordan Čebron, all’epoca un ragazzino e oggi riparatore di televisori, lo ricorda come fosse ieri. Quel mondo, quel clima di tensioni e diffidenza, nella Nova Gorica in cui viveva e vive tutt’ora, è acqua passata. Né esiste più il confine, neppure quello fisico, smantellato dalla Storia che, a colpi di libertà e democrazia, ha ricostruito l’Europa e, con essa, la parte più moderna e occidentalizzata dello scacchiere balcanico. La Slovenia, appunto, risorta sulle ceneri dell’ex Jugoslavia che il suo stesso anelito di indipendenza contribuì a smantellare, nell’estate del 1991, guardata con apprensione dall’alto del castello di Gorizia dai vicini italiani attoniti al cospetto del fuoco dei suoi carri armati. Occhi, i loro, consumati dalla guerra, che il trattato di Parigi del 1947 dichiarò finita con il sovrapprezzo di una dolorosa, quanto insensata, mutilazione territoriale, ma allenati alla convivenza e disponibili per questo a un percorso di riconciliazione di più ampio respiro.

 

Una visione sovranazionale: proprio come quella a cui l’ex impero asburgico aveva allevato generazioni. Il 18 dicembre 2020 la scommessa, il sogno della Berlino che, abbattuti i muri, diventa modello di civiltà, è stata vinta. Gorizia e Nova Gorica, opposti baluardi della cortina di ferro nella geografia a blocchi del secondo dopoguerra, sono state proclamate Capitale europea della cultura 2025. Lo yin e lo yang, uniti a formare la forza del cambiamento con le armi dell’arte e della scienza, hanno annientato non soltanto la concorrenza, ma, quel che più conta, decenni di zavorra ideologica, tra barriere mentali e dispute politiche, etniche e culturali, proiettandosi a braccetto nell’Europa delle regioni. Al riparo, questa volta sì, dalle bruttezze del male.

Eppure è proprio nel passato che la Storia può e deve attingere la lezione sugli errori dell’umanità. Il fu confine nord-orientale ne è pieno e l’ambizioso appuntamento che i sindaci Rodolfo Ziberna e Klemen Miklavič hanno saputo aggiudicarsi rappresenta l’occasione migliore per parlarne. Un compendio di ciò che hanno vissuto i goriziani, compresi quelli che un tratto di penna costrinse a restare, o a lasciare i propri beni, “di là”, è conservato nel Museo del confine allestito nei locali della stazione Transalpina. E cioè nell’imponente edificio affacciato sull’omonima piazza che, più di ogni altro luogo, ha simboleggiato la divisione fra Italia e Jugoslavia.

 

In cima al tetto, una stella rossa con falce e martello in rilievo: fu il maresciallo Tito a volerla issare, rivolta verso Gorizia, insieme alla scritta “Utrjujmo bratstvo in edinstvo narodov” (Rafforziamo la fratellanza e l’unità dei popoli), sostituita, dopo la rottura con Mosca, con “Mi gradimo socializem” (Noi costruiamo il socialismo). Doveva essere il suo monito all’Occidente, al pari di Nuova Gorizia, pensata e costruita come luminoso avamposto dell’Est europeo, ma ridotta ben presto a una sin city in miniatura, con i casermoni di cemento in stile socialista illuminati a giorno dai neon di casinò e case d’appuntamento. La riscossa, dalla capitale Lubiana attraversata dal fervore culturale giovanile, non si fece attendere. E la stella, sull’onda dei moti indipendentistici, sul finire del 1990 fu dapprima agghindata come una cometa proiettata verso l’Unione europea e, infine, rimossa.

Proprio come il filo spinato, sparito con la “picconata” del 2004, quando sulle note di Goran Bregovič il cielo è tornato a essere per tutti lo stesso. Riportata ai fasti originari, la mitica stella rossa resta oggi uno dei cimeli più preziosi, accanto alla collezione di oggetti e testimonianze custoditi nel collegato museo del contrabbando Na Šverc!, inaugurato nel 2019 nell’ex casermetta dei graniciari, le sentinelle di frontiera jugoslave, a due passi dal valico pedonale del Rafut.

Rok Bavčar e David Kožuh, i curatori, hanno realizzato un mosaico di voci che, unite alla rassegna di scarpe da donna con tacco amovibile, sellini di biciclette adesivi e bagagliai con doppiofondo, contribuiscono a gettare un fascio di luce sul buio di quegli anni. Ci sono i ricordi di Čebron, che con quei trucchetti non puntava certo ad arricchirsi. «Nascondevamo le lire nella camera d’aria e con quei soldi acquistavamo merci di prima necessità», dice.

E ci sono anche i racconti dei finanzieri. Quello compiaciuto di Jovo Radojevia, jugoslavo, che riuscì a incastrare due donne. «Pensavano di averla fatta franca nascondendo il denaro nel reggiseno, ma io lo scoprii e le invitai a seguirmi al vicino valico di Casa rossa per il controllo personale. Una volta lì, però, chiesi loro di aprire la borsetta, ben sapendo che nel frattempo avrebbero spostato i soldi». E quello compiacente di Domenico Bruzzechesse, italiano, che ammette di avere chiuso un occhio più di qualche volta. «Per esempio per qualche litro di grappa», sorride.

Del resto, quando ti trovi dall’oggi al domani con l’orto attraversato dalla linea di confine, con una parte dei parenti toccati in sorte al territorio più povero, con una tomba sepolta a metà tra due Stati (così nel cimitero di Merna), neanche fosse stato un terremoto a divaricare tanto drasticamente il creato e le sue creature, è normale inventarti ogni genere di stratagemma per aiutare e aiutarsi. “Propustnica” (il lasciapassare) alla mano, si contrabbandava quel che scarseggiava nei rispettivi Paesi: dalla carne alle sigarette, presenti in abbondanza in Jugoslavia, e dalle medicine alle piastrelle, ma anche alla letteratura e ai dischi proibiti, per chi si avventurava in Italia. «Mia nonna si legava fino a 12 conigli attorno alla vita, si copriva con un mantello e si presentava ai valichi con doganieri tutti maschi, per evitare i controlli alla persona», racconta lo stesso David, pescando nell’album delle memorie di famiglia.

 

Storie di coraggio e di disperazione. Ma anche di euforia collettiva. Accadde una domenica d’estate, il 13 agosto del 1950, e fu una parentesi d’ossigeno contro il torpore in cui anche l’economia, a pezzi come ogni altra certezza, stava sprofondando. I governi decisero di derogare alle limitazioni per un giorno intero e il microcosmo, accalcato dalle due parti del valico, tornò a vibrare. «Migliaia di goriziani rimasti di là dal confine, sloveni, croati di Pola e di Fiume, monfalconesi del Controesodo invasero pacificamente Gorizia per incontrare, dopo anni, vecchi amori, parenti e amici», racconta Roberto Covaz, giornalista e scrittore: «Quel giorno i fucili dei graniciari non spararono nemmeno un colpo; furono spazzati dalle scope di saggina acquistate in quantità e che diedero il nome alla giornata». Shopping, con le serrande alzate per l’occasione, ma anche socialità, tra osterie, strade e cortili finalmente affollati in quella “domenica delle scope”.

Quasi un’anticipazione del processo di integrazione europea che, per la Slovenia, si è completato il 20 dicembre 2007, con l’ingresso nell’area Schengen. “Liberi dalla paura”, titolava l’articolo di fondo su Il Piccolo del regista e scrittore Giorgio Pressburger. Non, però, dai fantasmi che la pandemia ha rievocato. Ora come allora, sono le immagini del dialogo, cercato e trovato anche in un semplice tavolo e nelle sue panche piazzati tra le reti, a confermare l’intensità che la “resistenza” popolare riesce a raggiungere nella terra dei confini mobili. Mobili come gli umori della politica e i rigurgiti xenofobi che, in questo tratto di rotta balcanica, nel 2019, spinsero il governo a trazione grillino-leghista a ipotizzare la costruzione di un nuovo muro per il contenimento dei flussi migratori.

 

Appartengo alla generazione diventata adulta all’ombra della divisione di una frontiera generata dal sangue versato nella Prima e nella Seconda guerra mondiale: l’ultima, mi auguro, a vivere l’esperienza di un confine costruito per dividere i popoli e le nazioni». Igor Komel è il presidente del Kulturni dom di Gorizia, la “casa della cultura” che dal 1981 getta ponti tra le persone e le istituzioni italiane e slovene. «In vista del 2025, occorre un ulteriore coraggioso impegno a sviluppare un vero e proprio “laboratorio di pace e di convivenza” tra le diversità», dice, conscio dei risultati che la collaborazione transfrontaliera è riuscita a raggiungere, ma convinto anche che «siano proprio le diversità a renderci interessanti».

Da qui, la proposta di un “bilinguismo passivo” su un territorio per sua stessa natura multilingue. «Oggi, nel mondo globale, essere bilingui è troppo poco. Le due Gorizie, in questo senso, potrebbero essere le apripista al multilinguismo, con l’istituzione obbligatoria nelle scuole di ogni ordine e grado, da Tarvisio a Muggia e da Capodistria a Pirano, di italiano, sloveno e inglese. Per parlare intercambiandole l’una con un’altra», osserva.

Intanto, per entrambe le amministrazioni comunali è tempo di tirare le fila, tra progetti di collaborazione e milioni di euro in arrivo. Serviranno «al rilancio economico di tutto il territorio», annuncia il sindaco Ziberna: «Ma anche a insegnare alle tante persone che ancora lo ignorano che Gorizia è in Italia», ricorda lui, che con la propria famiglia conobbe il dramma dei profughi istriani.