Intervista
Roberto Esposito e Chiara Valerio: dialogo tra un filosofo e una scrittrice sui segreti dell’immunità
Proteggersi è il fondamento di ogni comunità civile. E oggi per la prima volta si ipotizza di vaccinare l’intera umanità
Roberto Esposito nel suo ultimo saggio “Immunità comune. Biopolitica ai tempi della pandemia”, pubblicato nella Piccola Biblioteca Einaudi, sceglie, con grande limpidezza, un punto di vista nell’analisi del rapporto tra pandemia e società.
Esposito sottolinea quanto la realtà della pandemia abbia reso evidente l’insostituibilità delle istituzioni e contemporaneamente la necessità della loro trasformazione. L’interrogativo che muove l’analisi (e la sintesi) del filosofo è se l’interpretazione del rapporto tra biopolitica e istituzioni, per come lo abbiamo definito e analizzato finora, sia adeguata. Esposito osserva che, per la prima volta nella storia dell’uomo, ci si propone una vaccinazione per l’intero genere umano e questo proposito - teorico, sappiamo che in vaste zone del mondo non c’è disponibilità di produrre o comprare i vaccini - cambia il rapporto tra immunità e comunità che, evidenzia il filosofo, non esistono l’una senza l’altra pur opponendosi sia da un punto di vista logico che etimologico.
«Alla protezione, o al privilegio, di una parte dell’umanità ha sempre corrisposto l’estrema vulnerabilità ed esposizione di un’altra». Penso sempre che la società sia la più grande superstizione del nostro tempo, anche se non ce ne accorgiamo, tuttavia, leggendo questo testo di Esposito, mi rendo conto che forse anche l’individuo è una superstizione contemporanea. Sia gli individui che la società - “comunità” scrive Esposito - sono sottoposti «all’esigenza immunitaria dell’incivilimento» che funziona solo per via negativa: protegge il corpo attraverso lo stesso male (in dose minore) che intende impedire. Con riflessioni che spaziano dall’etimo alla storia e in una rete dialogante con testi di pensatori passati e contemporanei Roberto Esposito ci accompagna a conoscere e pronunciare il “nome segreto” della civilizzazione. Questa è la nostra conversazione di un sabato mattina di gennaio.
II nome segreto è qualcosa che, solitamente, ha a che fare con l’esoterismo, e con la magia, Nell’introduzione al suo saggio osserva che se l’immunizzazione potrebbe rivelarsi il nome segreto della civilizzazione. Cosa comporterebbe per noi pronunciare questo nome segreto?
«In verità non volevo enfatizzare il termine “segreto”. Intendevo dire “meno in vista”, “rimosso”, “non usato”, perché, da parte di autori eminenti come Freud, Elias e tanti altri si è preferito il nome “nobile” di “civilizzazione”, che rimanda a qualcosa di luminoso, eroico, piuttosto che all’ambito oscuro della biologia. Ma credo che adesso questo nome meno glorioso di “immunizzazione” debba ritrovare il posto che merita per dare un significato più concreto e incisivo alle nostre parole. Lei che è una scrittrice conosce la forza delle parole…».
Da ragazza ho letto - con quel gusto dark di chi è stato adolescente negli anni Novanta - lo studio sulla fine del mondo di Ernesto De Martino (della quale esiste una nuova edizione aggiornata del 2019 pubblicata sempre per i tipi di Einaudi). Le apocalissi culturali di De Martino hanno a che fare con la perdita di memoria e col senso della memoria stessa. L’immunizzazione del nostro corpo, individuale, e dunque della comunità, è finora temporanea. Mi piacerebbe che dicesse qualcosa su immunizzazione e memoria.
«Anche io amo De Martino e le sue analisi straordinarie. In verità l’immunità ha una sua memoria, almeno sotto il profilo biologico. Infatti, quando il nostro sistema immunitario incontra un virus, ne mantiene il ricordo, che impedisce all’organismo di ammalarsi una seconda volta della stessa malattia. Qualcosa del genere accade anche alla comunità - come quando, ad esempio, si dice, a ragione o a torto, che siamo immunizzati dal germe del fascismo, di cui abbiamo conosciuto gli effetti catastrofici. Naturalmente si tratta di una funzione temporanea - relativa alla durata della vita individuale, o di quella di una società - e spesso inconsapevole».
La pandemia è un tema da filosofi politici perché investe - ed è stata determinata da - le democrazie capitalistiche?
«In realtà pare sia nata in Cina, un sistema capitalistico autoritario. È un tema (anche) da filosofi politici perché investe la società in tutti i suoi aspetti. E richiede risposte anche politiche. In due anni la pandemia ha sconvolto lo scenario politico precedente, condizionando l’atteggiamento delle grandi potenze e il rapporto di forza tra partiti e movimenti politici. Del resto come la politica potrebbe non occuparsi di qualcosa che, prima di altro, riguarda la stessa conservazione della vita?».
Come nasce la figura dell’esperto - cruciale nelle sue analisi - chi è, e qual è il suo ruolo culturale ancora prima che politico (se c’è differenza tra cultura e politica cosa di cui, dopo due anni di coronacene, dubito)?
«La figura dell’esperto, o del tecnico, è sempre esistita. Si pensi al suo ruolo durante la precedente crisi economica. In questa stagione ha assunto un rilievo sempre maggiore perché la politica non si è rivelata in grado di gestire la situazione. Che d’altra parte ci fosse bisogno di esperti, virologi e immunologi è fuori discussione. Tutto sta nel vedere il peso, secondo me eccessivo, che essi stanno assumendo nelle nostre società democratiche».
Perché Foucault non basta - e non basta Carl Schmitt - per analizzare questa pandemia? E da questo punto di vista qual è la responsabilità dei pensatori coevi alla pandemia?
«Foucault non basta intanto perché pensa e scrive in un’altra epoca e poi perché, nonostante le sue formidabili intuizioni, non ha mai colto la rilevanza delle istituzioni, che invece oggi risultano decisive, soprattutto se sapranno mutare il loro assetto in vista dei nuovi problemi che abbiamo di fronte. Schmitt al momento non ci serve molto perché tende a pensare la politica sullo schema della guerra, quando oggi si richiede più collaborazione che contrasto radicale. La loro, la nostra, responsabilità è grande perché, in una fase di incertezza come quella che viviamo, le nostre parole condizionano i comportamenti altrui. Dunque, stiamo attenti a quello che diciamo».
Dopo la pandemia di Aids gli studi di medicina, e il racconto degli studi di medicina, si sono concentrati sulle malattie che venivano da dentro, i tumori, come se il nostro rapporto con l’esterno fosse di assoluta primazia e predominio, parlo dell’occidente. Questa malattia invece viene da fuori e mette in discussione chi siamo e quanto. In che termini è una occasione di tornare a pensarsi nel cerchio e nel quadrato, in mezzo al resto, se lo è?
«È vero che i virus ci assalgono dall’esterno, mentre i tumori nascono dentro di noi. In questo senso la pandemia ci interroga in modo profondo sul nostro rapporto con gli altri e con la natura. In realtà riguarda anche qualcosa di interno, come per esempio il nostro sistema immunitario, più o meno attrezzato a contrastarla. Così come anche i tumori hanno a che fare, oltre che con una predisposizione innata, anche con quello che mangiamo e i nostri stili di vita».
Non so se ha mai visto il cartone animato di Walt Disney “La spada nella roccia” dove viene raccontata la storia di Artù di Camelot con variazioni, così come si fa con i miti. A un certo punto c’è una lotta tra due maghi, Maga Magò e Mago Merlino ciascuno dei quali per vincere l’altro si trasforma via via in un essere sempre più abnorme e mostruoso fino a quando mago Merlino non si trasforma in un virus - mio nipote Francesco nell’acribia della sua infanzia sostiene sia però un batterio - che infetta e vince Maga Magò. Per tornare alla magia dell’inizio, quanto l’immunizzazione e forse anche la comunità hanno a che fare con l’invisibile.
«Non l’ho visto. Ma lo farò presto. Sia la comunità che l’immunizzazione hanno a che fare con l’invisibile. La comunità perché è qualcosa che sta fuori di noi, ma tocca e modifica anche la nostra vita interiore. L’immunizzazione è ancora più “segreta”, per usare il termine di prima, perché non ne conosciamo né l’entità né la durata. Ma sappiamo che senza di essa né il singolo individuo né la società potrebbe sopravvivere. Anche se, per non rinunciare alla comunità, non bisogna abusarne».