Fibromialgia, endometriosi, vulvodinia. Malattie diffuse ma pochi centri. E nessuna assistenza del servizio sanitario nazionale

Quando raccontano la loro storia, Erika e Giusy pronunciano frasi simili: «Credevano fossi pazza», «per avere una diagnosi ho dovuto aspettare anni», «mi ero arresa», «ora mi sento libera». Erika e Giusy soffrono di due patologie differenti. Vengono chiamate malattie invisibili: sono disturbi incurabili e poco studiati, che colpiscono milioni di persone ma non sono ancora del tutto riconosciute dallo Stato. Il sistema sanitario nazionale non copre i costi per le viste, gli esami e i farmaci.

Giusy ha la fibromialgia, Erika l’endometriosi. Ci sono poi la vulvodinia e i dolori pelvici. Chi ne soffre sa di dover trovare il modo per resistere, anche se i sintomi a volte diventano insopportabili.

«Nel 2009 sono stata colpita da una febbre altissima e da fitte che mi hanno paralizzato. Sono passata da quattro ore di allenamento al giorno a stare sulla sedia a rotelle», racconta Giusy. In ospedale nessuno sapeva dirle che cosa avesse. Passava da un ospedale all’altro senza avere risposte. «Io sapevo di essere malata, ma il mondo sanitario non mi credeva: mi diceva che ero depressa».

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Fibromialgia: In Italia sono due milioni le persone colpite dalla fibromialgia, una sindrome che provoca dolore muscolo-scheletrico diffuso e affaticamento. È una patologia prevalentemente femminile, ma può colpire anche gli uomini. I dolori avvertiti sono costanti, varia soltanto l’intensità. Chi li percepisce dice di sentire bruciore, tensione, rigidità. Sai cosa provi oggi, non che cosa potrebbe accaderti domani: cefalea? crampi addominali? mal di schiena?

Non esiste un esame attraverso cui poter diagnosticare questa patologia. L’analisi viene effettuata sulla base dei sintomi raccontati. Ed è per questo motivo che spesso i medici fanno fatica a dire con certezza se si tratti o meno di fibromialgia. Molti pazienti rimangono in un limbo.

Giusy prima di avere la diagnosi ha dovuto aspettare sette anni: «Tutti procedevano a tentoni, alcuni mi prescrivevano dei farmaci immunosoppressori, altri del cortisone. Sono andata avanti con uno sforzo e un dolore inimmaginabili», ricorda. La malattia non è solo difficilmente diagnosticabile, è anche poco conosciuta. Non avendo prove tangibili delle sofferenze del paziente, medici e infermieri riconducono tutto a condizioni psichiche come stress o depressione.

Giusy ha conosciuto il nome della patologia che le rendeva la vita impossibile dopo l’ennesimo ricovero in ospedale: «Mi hanno indirizzato a un centro specializzato a Milano, dove mi hanno diagnosticato tutto». Si tratta dell’Unità di reumatologia dell’ospedale Sacco. Giusy abitava a Palermo con suo marito e suo figlio, per potersi curare si è dovuta trasferire. «È stato fondamentale sapere di essere malata», ripete. Dopo tre mesi, le hanno diagnosticato anche la vasculite (un’infiammazione delle pareti dei vasi sanguigni).

La fibromialgia non è compresa nei Lea (Livelli essenziali di assistenza), le prestazioni che il servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini. «Questo vuol dire che ogni visita viene pagata», aggiunge Giusy. Non c’è nessuna esenzione: tutto è a carico dei pazienti.

Il ministero sta ragionando sulla possibilità di inserire la fibromialgia tra i Lea e ha richiesto una classifica degli stadi di gravità per capire a chi garantire l’esenzione. «Sappiamo che ci sono stati molti colloqui con la Fondazione italiana di reumatologia. Siamo in attesa di capire e di avere comunicazioni ufficiali», dice Giusy, che oggi è anche vicepresidente di Aisf (l’Associazione italiana della sindrome fibromialgica).

Aggiungere la fibromialgia ai Lea è solo un primo passo, bisogna poi occuparsi della creazione di centri specializzati e dell’istituzione di registri in cui siano raggruppati i pazienti. Oggi molte regioni non hanno ancora un codice che identifichi la patologia e che permetta di capire quante sono «le persone malate sul territorio».

 

Endometriosi: Erika soffre di endometriosi: anche lei ha dovuto aspettare sette anni per poter avere una diagnosi. L’endometriosi è una malattia ginecologica, causata dalla presenza di tessuto endometriale (la mucosa che riveste la parete interna dell’utero) in altre parti del corpo, come le ovaie o le tube. Questo comporta uno stato di infiammazione cronica degli apparati genitali femminili. I dolori sono lancinanti, sia durante le mestruazioni sia nelle settimane precedenti. I momenti di tregua sono rari. Erika ha consultato decine di ginecologi. «A un certo punto ho pensato che le fitte avvertite fossero normali», racconta. Anche la madre soffre di endometriosi, hanno ricevuto insieme la diagnosi: a 24 anni in un caso, a 47 nell’altro.

Erika credeva che i dolori fossero naturali, perché ha sempre visto sua mamma soffrire allo stesso modo. «Vedevamo la stessa situazione l’una nell’altra». Poi un giorno qualcosa è cambiato: «L’anno scorso ho iniziato ad avere un dolore pelvico incessante, questa cosa mi ha fatto scattare».

Erika ha deciso di contattare l’ennesima ginecologa, che dopo una serie di esami ha escluso che si trattasse di endometriosi. «Non so perché ma non ero convinta. Ho cercato un centro specializzato a cui rivolgermi e sono andata a Verona. Lì, a me e mia madre, hanno diagnosticato l’endometriosi». Erika abita a Benevento, per farsi visitare ha dovuto percorrere più di 700 chilometri. Esistono centri specializzati anche in Campania, ma lei non li conosceva e non sapeva a chi chiedere. «Tutte le informazioni che ho avuto, le ho ottenute su Internet», aggiunge.

Secondo il sito dell’Ape (Associazione progetto endometriosi), in Italia sono una cinquantina i centri pubblici specializzati. Nelle strutture più prestigiose si attende anche due mesi: al Policlinico di Milano, ad esempio, l’attesa è di 120 giorni. I volontari dell’Ape scrivono che l’elenco potrebbe essere poco esaustivo. Reperire informazioni non è facile, al momento manca una pagina web del ministero della Salute che raggruppi le diverse realtà presenti sul territorio.

Come per la fibromialgia, anche per l’endometriosi non esiste una cura specifica. Quando la patologia diventa troppo invasiva, si ricorre a un intervento chirurgico per asportare il tessuto endometriale cresciuto in eccesso. Non è detto che sia risolutivo. «Spesso si è costretti a operarsi di nuovo»: Erika ha sostenuto il suo primo intervento da poco, è preoccupata perché non sa cosa potrebbe accaderle in futuro. Molto dipende da come reagirà il suo corpo in questi mesi. Ci tiene a precisare che è tutto molto soggettivo e che anche i dottori non sanno precisamente quale sarà il decorso della malattia.

Erika dopo la diagnosi ha aperto una pagina su Instagram per raccontare cosa vuol dire vivere con l’endometriosi. Un modo per aiutare le ragazze come lei che improvvisamente si ritrovano a dover fare i conti con una patologia quasi sconosciuta. In questo modo, forse, è possibile sentirsi meno sole: «Capire i dolori che proviamo non è facile. Mentre faccio l’amore, mi sembra di avere qualcuno che mi infila ripetutamente un coltello nelle gambe».

Secondo i dati del ministero della Salute sono tre milioni le ragazze con una diagnosi conclamata di endometriosi: il 10-15 per cento della popolazione femminile in età riproduttiva. Il servizio sanitario nazionale copre le visite e gli esami soltanto a chi ha raggiunto il terzo o il quarto stadio della malattia. «Gli stadi dipendono dalla crescita del tessuto endometriale, ma non corrispondono al dolore percepito. Ci sono casi in cui la patologia diventa insostenibile già da subito», spiega Erika. In alcune strutture gli interventi sono a pagamento.

Erika si è operata insieme a sua madre. «Le hanno tolto l’utero», racconta. Sa che potrebbe accadere anche a lei: un intervento di questo tipo diventa indispensabile quando l’endometriosi raggiunge una fase troppo avanzata. «Mentre mia mamma stava male, le dicevano in continuazione che era tutto normale. A un certo punto ho iniziato a pensare che fosse tutto nella mia testa, che gli antidolorifici non funzionassero». Erika mentre parla sovrappone spesso le sue sensazioni e i suoi pensieri a quelli della madre: si capiscono.

Vulvodinia: Endometriosi e fibromialgia non sono le uniche malattie invisibili. Tra le più diffuse nella popolazione femminile c’è anche la vulvodinia: una sindrome cronica che comporta l’infiammazione delle terminazioni nervose dell’area vulvo-vaginale e pelvica. Chi ne soffre avverte bruciore, fitte, prurito e formicolio. Diventa difficile avere rapporti sessuali, indossare abiti aderenti, andare in bicicletta.

«Ci sono donne che non riescono a stare sedute a lungo», aggiunge Filippo Murina, ginecologo responsabile del Servizio di patologia del tratto genitale inferiore dell’ospedale Buzzi di Milano. Nel 2006 ha fondato l’Aiv (Associazione italiana per la vulvodinia). L’obiettivo era far conoscere questa malattia e studiarla per poter garantire alle pazienti una vita migliore. Ad oggi i soci sono circa 3.000. Si stima che il 12-15 per cento delle donne soffra di vulvodinia. «Vogliamo superare l’idea che questa patologia sia comprensibile solo alle persone specializzate, vogliamo che sia riconosciuta, conosciuta», prosegue Murina.

La vulvodinia, nonostante sia una sindrome cronica e invalidante, non è inserita nei Lea. Anche in questo caso i centri specializzati pubblici sono pochi e mal diffusi. «Al Buzzi abbiamo due ambulatori che due giorni alla settimana sono dedicati alla vulvodinia e ai problemi del collo dell’utero. Chiedere un appuntamento oggi, a dicembre, significa poter essere visitate almeno a marzo-aprile», osserva Murina.

Se convivi con una malattia invisibile, ti abitui, forzatamente, anche alle attese. «La commissione nazionale per l’aggiornamento dei Lea è impegnata nella valutazione della richiesta di inserimento della fibromialgia quale malattia invalidante, da riconoscere in regime di esenzione», ha annunciato a fine ottobre il ministro della Salute Roberto Speranza, rispondendo a un question time alla Camera. Le altre malattie invisibili dovranno aspettare.