Il leader della Lega aveva denunciato il giornalista Mauro Munafò per un articolo che analizzava il linguaggio ambiguo dei suoi messaggi in seguito a un omicidio a sfondo razzista. Ma i giudici gli danno torto e confermano la validità del nostro lavoro

Ci risiamo. Matteo Salvini fa causa all'Espresso e, come al solito, la perde. Al lungo elenco di iniziative legali avviate dal leader leghista, e miseramente naufragate, oggi se ne aggiunge un'altra.

Nel 2016 Mauro Munafò, in un post sul suo blog, commentava gli ambigui messaggi prodotti da Salvini in seguito alla morte di Emmanuel Chidi Namdi, nigeriano di 36 anni ammazzato di botte da Amedeo Mancini, ultrà della Fermana, per aver difeso la sua compagna da alcuni insulti razzisti.

Poche ore dopo, come era già sua abitudine su tutti i casi di cronaca, Salvini decise di commentare sui social l'evento condannando il gesto ma addossando anche parte della colpa alla vittima.

 

«Chi uccide, stupra o aggredisce un altro essere umano va punito. Punto. A prescindere dal colore della pelle. Sei bianco, sei nero, sei rosa e ammazzi qualcuno senza motivo? - scriveva Salvini - In galera, la violenza non ha giustificazione. Il ragazzo nigeriano a Fermo non doveva morire, una preghiera per lui. È sempre più evidente che l'immigrazione clandestina fuori controllo, anzi l'invasione organizzata, non porterà nulla di buono. Controlli, limiti, rispetto, regole e pene certe: chiediamo troppo?».

 

Una uscita che il post di Munafò analizzava nel dettaglio per mostrare i costrutti retorici tipici della comunicazione salviniana, che tanti successi elettorali e social gli hanno garantito. Il titolo del post è quello che più di tutti fece infuriare il leghista: “Per Matteo Salvini se sei nero e ti ammazzano è un po' colpa tua”.

 

«[Salvini] tira fuori una dichiarazione semplicemente oscena – scriveva Munafò nel 2016 - costruita con una struttura retorica ben nota. Che punta a colpevolizzare in maniera indiretta e subdola la vittima. Prima ti riscalda segnalando che non importa il colore della pelle (bravo), che chi sbaglia deve pagare (giusto). Poi ti spara il classico "ma", in cui ti ricorda che se Emmanuel non fosse venuto in Italia allora sarebbe ancora vivo. Di più, ti appiccica l'etichetta di immigrato clandestino, anzi di invasore, glissando su piccoli dettagli irrilevanti quali la tua storia personale che parla di una fuga da Boko Haram e di figli ammazzati».

 

Per la cronaca, nel 2017 la vicenda giudiziaria intorno all'omicidio di Namdi si chiude con la condanna di Mancini a quattro anni di domiciliari per omicidio preterintenzionale con l'aggravante razziale.

 

Salvini decide di querelare il nostro giornale, annunciandolo sui social e alimentando una serie di attacchi anche personali verso il nostro collega. La giustizia fa il suo corso: il pm nel 2020 chiede l'archiviazione ma il leghista si oppone e, nei giorni scorsi, il Gip accogliendo la tesi degli avvocati difensori Paolo Mazzà e Clara Gabrielli conferma e chiude definitivamente la vicenda, dando sostanzialmente ragione all'Espresso.

 

«La plausibilità logica dei suddetti approcci interpretativi, radicalmente tra loro divergenti per contenuti e finalità di lettura mediatica – si legge nell'ordinanza - discende proprio dall'ambivalenza espressiva del testo del post Fàcebook [di Salvini ndr] e dall'assenza di un inequivoco raccordo logico tra l'espressione di cordoglio, apprezzata dall'indagato come farisaica, ed il messaggio politico. Di tale equivocità lessicale non può certamente rispondere il giornalista', avendo costui non incongruamente interpretato il messaggio e non avendone dolosamente alterato il senso. Da ciò discende che la condotta dell'autore dello scritto censurato deve ritenersi scriminata dalla esimente del legittimo esercizio del diritto di critica, tenuto conto della dimensione pubblica del destinatario (e della maggiore tolleranza accettata con riguardo alla critica investente l'ambito politico), del rispetto del limite della continenza espositiva e della sicura rilevanza mediatica della tematica trattata».

 

Il leader leghista, impegnato in questi mesi nel sostenere un referendum per migliorare la giustizia italiana, ha insomma per 5 anni ingolfato la stessa con una querela incongrua.

 

Le strategie comunicative di Salvini negli anni non sono cambiate e questa ordinanza arriva un mese dopo delle sue dichiarazioni dedicate a un altro caso, la morte a Voghera del 39enne marocchino Youns El Boussettaoui in seguito a un colpo di pistola sparato dall'assessore leghista alla sicurezza Massimo Adriatici (al momento ai domiciliari per eccesso colposo di legittima difesa).

 

Anche in questo caso Salvini prova a scaricare le colpe sulla vittima, segnalando i suoi precedenti penali e assolvendo di fatto il collega di partito. «È stata legittima difesa – ha commentato Matteo Salvini - È partito un colpo che purtroppo ha ucciso un cittadino straniero che, secondo quanto trapela, è già noto in città e alle forze dell'ordine per violenze, aggressioni, addirittura atti osceni in luogo pubblico».

 

Oggi come nel 2016 per il leghista, insomma, la colpa è sempre un po' di quello che muore.