Mohammed ha combattuto contro il regime e per questo dieci anni fa è venuto, da solo, nel nostro Paese. I talebani hanno già ucciso la madre e il fratello. «Ho aiutato gl americani ma nessuno aiuta me oggi» confessa disperato

Nella piazzetta nascosta nel cuore di Caltanissetta, dove i magazzini hanno insegne scritte in arabo, fino alle 3 di notte c’è un gruppo di persone, afghane, che non riescono a dormire e da due settimane perché pensano a come poter fare per far arrivare i loro cari in Italia. Arrivare e non tornare perché i loro cari in Italia non ci sono mai stati, sono stati sempre i padri che con le rimesse hanno permesso loro di vivere in Afghanistan tranquillamente.

 

Tra questi c’è Mohammad, tunica corta color arancio scuro, proprietario da gennaio di un negozio di alimentari italiani e arabi. I suoi occhi sono lucidi ma rossi di rabbia, la sua voce rallenta con decisione per far comprendere meglio le parole dette in un italiano misto all’inglese. «Io sono un bastardo afghano – esordisce – per questo non ho nessun diritto. I talebani mi stanno cercando, hanno ucciso mia mamma, mia zia e figlio di fratello (nipote ndr) perché pensavano che nascondessero me, ma io non sono in Afghanistan dal 2011».

 

Mohammad, che non vuole farsi fotografare perché i talebani potrebbero trovarlo, non è soltanto triste perché i talebani hanno ucciso parte della sua famiglia, è arrabbiato perché sta cercando di salvare quel che resta dei suoi cari ma non ci riesce: «Sono andato da un avvocato – spiega prendendo dallo zaino messo tra il riso e cibi orientali, due faldoni pieni di scartoffie – perché nessuno mi vuole dare ascolto. Dopo che hanno ucciso la mia famiglia, adesso mia moglie e mia figlia sono in pericolo. Non sono buoni come dicono i talebani, io ho combattuto contro di loro – dice scagliando il suo passaporto sul tavolo – ho aiutato gli americani e gli altri eserciti e adesso nessuno vuole aiutare me per far tornare mia moglie e mia figlia, io andrei a prenderli a piedi».

 

Mohammad ha combattuto i talebani, e nonostante siano passati dieci anni, il suo nome era nella lista di coloro che dovevano essere uccisi, così un commando ha già fatto irruzione nella sua casa natale doveva viveva con la madre, ma lui non c’era perché è poi fuggito andando prima in Germania e poi in Italia, a Caltanissetta, dove c’è la più folta comunità della Sicilia, tra le prime dieci in Italia.

 

Tra i pakistani (anch’essi molto presenti in città) che entrano nel negozio e gli altri afghani che gli chiedono notizie, lui non riesce a sorridere: «Io non ho più testa per lavorare – dice – non dormo più e non mangio più. Nessuno mi aiuta perché non sono italiano o pakistano, sono un bastardo afghano: sono andato in prefettura e non hanno un secondo per me, neanche mi hanno detto quando riaprono, solo “siamo chiusi”, a Pian del lago (centro di accoglienza ndr) non mi sanno dire nulla e quindi sono andato da un avvocato».

 

Le sue speranze però sono poche: Mohammad non sa che cosa fare per dimostrare che sua moglie e sua figlia, non residenti italiane, appartengono alla sua famiglia e che quindi vuole farle tornare. Mostra così tutto quello che ha per dimostrarlo: le foto di famiglia dove sono tutti sorridenti, su uno sfondo bianco, e la figlia di circa 10 anni in mezzo; la pagella della bambina, di tutti i suoi anni scolastici, compreso il diploma alla fine del quinto anno. Ma anche le cose peggiori, sua figlia e sua moglie sono state ricoverate per una malattia in un ospedale francese in Afghanistan, quindi mostra le radiografie e i vari certificati: «Perché non chiamano questo numero? La dottoressa li conosce. Io voglio andare a Roma per farli tornare, voglio parlare con il ministero, mi sono sempre comportato bene, non sono un criminale, uno che vende cocaina o hashish, sono qui per lavorare».

 

Lui mostra il suo passaporto, la “sussidiaria” dei suoi anni a Londra e i documenti dell’affitto a Caltanissetta, dove vive in casa con altre dieci persone: «Con persone che sono con i talebani e che fino a ieri ci parlavamo adesso neanche ci salutiamo anche se viviamo nella stessa casa. Io non sono tranquillo, non so più cosa fare». Il sole è tramontato anche lì, chiusa la saracinesca del negozio, Mohammad non tornerà a casa ma starà nella piazzetta, tablet alla mano, per trovare una soluzione, anche se ad ogni alba la situazione diventa più difficile.