Il Covid-19 e l’instabilità politica spingono gli arrivi dalla Tunisia. A centinaia sono ammassati sotto il sole impietoso nell’hotspot, prima di ripartire

Aspettano nascosti dal sole. C’è una casupola diroccata a fare da ombra. Saranno dieci, forse dodici. Difficili contarli mentre guardi quella buca in basso da dove arrivano i canti. Guardano anche loro dentro la buca, a decine di passi dall’inferriata, consapevoli che tanto da lì non scappa nessuno. «Non vi potete avvicinare, almeno non oltre i venti metri», dice un militare. La divisa consumata dal sole, il volto cotto, la pelle sfregiata dall’umidità.
Lampedusa, primi giorni di agosto. C’è terra e sassi tutto intorno. Ci sono i militari che chiedono i documenti a qualsiasi giornalista che si avvicini all’hotspot perché è necessario per motivi di sicurezza rendere nota la propria identità. Nessuno risponde alle domande: «Se vuole sapere qualcosa di più chieda un’intervista al ministero». E così rimangono fermi ad attendere le ore, ad aspettare che qualcuno arrivi a dargli il cambio in quella terra marziana, mentre dentro, oltre il recinto, dove sono state stipate centinaia di persone, ci sono i canti, i bambini che guardano storditi quell’ammasso di mille teste in cerca di ombra. I materassi sono fuori dagli edifici, ma al di là dell’inferriata. Disposti addosso alle mura, alcuni teli stesi per fare da riparo. Lì dormiranno in duecento, gli altri quasi ottocento tutti fuori all’aria aperta che siano 40 gradi o che ci sia pioggia torrenziale. Che ci sia una crisi sanitaria in corso a livello mondiale. Qui il distanziamento non è previsto, qui la sicurezza sta nel tenerli dentro il recinto.


Un ragazzino del Bangladesh si avvicina, avrà vent’anni. Lui dentro, io fuori. Ha in mano una mazzetta di soldi, non parla italiano, non parla inglese e neanche francese. Ride esaltato, felice che ci sia un volto all’esterno della grata. Vuole che qualcuno gli cambi i soldi. E continua con la sua mazzetta a ridere felice. Chiama un amico a fare da traduttore, mentre tiene stretto il rotolino tra le mani. Così stretto che si vede la tensione delle dita. Il militare arriva subito: «Stia lontana almeno venti metri, potrebbero tirarle qualcosa addosso, lo diciamo per la sua sicurezza». Eppure chi arriva all’inferriata più che lanciare oggetti, chiede aiuto. Gli altri ti ignorano, fanno come se non esistessi.
Un megafono chiama, sono disposti in fila. Hanno solo una sacchetta di plastica a quadretti tra le mani, dentro ci sono le poche cose che si portano appresso. Il megafono chiama e aspettano. Aspettano ancora, fino a entrare dentro i furgoni che porterà loro al porto commerciale di Lampedusa. Davanti, in prima fila, spuntano due bottoni luminosi. Sono occhi di bambino. Da lontano sembra alto un palmo di mano e un marshmallow. Ti chiedi se sappia dove andrà, se la madre che gli è accanto gli abbia spiegato dove si trova. La stessa che l’ha fatto arrivare da un paese lontano e gli ha fatto attraversare il mar Mediterraneo.
«Arrivano stremati, distrutti dalla sete quando va bene», ti spiega chi ogni giorno si trova ad accoglierli.


Al porto di Lampedusa arrivano in una ottantina, pronti a partire per la Sicilia dove finiranno in quarantena per quindici giorni. Sono divisi in gruppi senza che nessuno glielo abbia chiesto. Da una parte i tunisini, dall’altra i subsahariani. Diversi nel loro modo di cercare fortuna. «Siamo qui perché il coronavirus ci ha tolto tutto e sta devastando il nostro paese», spiega un ragazzo di 21 anni. Un suo amico si intromette: «Anche la situazione politica tunisina ci sta spingendo a lasciare il nostro Paese».

Ogni giorni ci sono oltre cento morti e quasi tremila contagi in una terra che conta dodici milioni di abitanti. Per evitare la catastrofe sanitaria la Cina ha donato per il momento 500mila dosi, 250mila sono arrivate dall’Algeria e dalla Francia un milione. Dall’Italia un milione e cinquecentomila. Un popolo che rincorre l’immunizzazione mentre la politica traballa con il presidente Kais Saied che ha licenziato alla fine di luglio il premier Hichem Mechichi e congelato il Parlamento. C’è chi lo ha definito un golpe chi invece lo ha visto come il tramonto dei Fratelli musulmani. Ma il Covid-19 esplode e insieme agli ospedali che ricevono bombole d’ossigeno dall’estero, l’economia si blocca, spingendo il popolo a fuggire.


«Vedi quel posto sono arrivati lì, sono scesi dalla barca mentre la gente faceva l’aperitivo. Nello stesso momento c’erano altre due sbarchi, ci siamo divisi e ci siamo dovuti ricollocare con le varie squadre per riuscire a prestare i primi aiuti e capire le loro condizioni fisiche e psicologiche», dice Alessandro Trainito, medical doctor di Medici senza frontiere agli sbarchi, indicando un foglio di spiaggia vicino a un locale. Alessandro guarda il mare: «Io di guerre ne ho viste, anche di gente morire. Ma il mare è diverso, la gente in mare non la vedi morire, la vedi scomparire...». Parla mentre il caldo ti si appiccica addosso, mentre il sudore ti copre il viso. L’umidità di quest’isola uccide. «Quest’anno arrivano in tanti, in questo momento soprattutto dalla Tunisia, il nostro compito e sapere come stanno fisicamente e psicologicamente. È difficile stabilirci un rapporto appena scendono dalla barca o dalla motovedetta della Guardia costiera o della Guardia di finanza». È stanco, non ha dormito, la notte l’ha passata al porto Favarolo con gli sbarchi che continuavano e le condizioni fisiche da comunicare.


Tutti vengono tamponati dalle autorità sanitarie italiane prima di entrare nell’hotspot e prima di ripartire. Chi è positivo finisce nelle navi quarantena, insieme ai negativi, ma comunque separati tra loro. Mentre parliamo ne arriva una a Cala Pisana. Fuori c’è la Croce Rossa pronta ad attendere i furgoncini. Vengono messi dentro alla grande nave. La gente passa con i motorini ignara di un tempo diverso. «Questa è l’isola che non c’è, arriviamo con la speranza di fare del bene, ma sappiamo che nonostante tutto mettiamo delle pezze perché il sistema potrebbe andare molto meglio», dice Alessandro.


È notte, arriva la notizia di un nuovo sbarco, il terzo da inizio giornata, anche se le onde del nord Africa facevano pensare che nessuno sarebbe partito. E invece no. La Guardia di finanza sta scortando la barchetta con a borda una sessantina di persona. Le telecamere, due soltanto, aspettano di raccontare quel che accade in quest’isola di cui nessuno parla più, se non pochissimi. Un ciuffo di persone si ferma: «Che succede?», chiedono. «Un nuovo sbarco», rispondiamo. E loro rimangono perché uno sbarco non lo hanno mai visto e hai la sensazione che lo osservino con la stesso entusiasmo di un concerto qualunque, svuotandolo.


Mentre i turisti cercano il loro spazietto in prima fila per assistere allo spettacolo, i migranti non sanno dove andare, forse non capiscono le indicazioni, vedono terra ferma e invece di arrivare al porto Favarolo, approdano nel primo scoglio vicino alla riva. Scendono con la foga di chi ha trovato la terra promessa. Scendono con lo stupore. Vengono fatti sedere. Le autorità contano le teste puntando addosso a loro una lampadina. «Altri dieci», si sente urlare. E partono. Poi: «Adesso donne e bambini» e partono anche quelli. I volti, quei volti, li vedi attraverso il sorriso. Li vedi in quella barchetta che galleggia poco lontano e ti chiedi se non sia in fondo al mare grazie a una forza ancestrale che li ha portati fin qui. Ti vengono in mente i racconti di tutti, ti chiedi quale sia la loro storia.

Sai cosa li aspetta e sai che alcuni attraverseranno l’Europa in cerca dei fratelli che magari si trovano nella costa di Nord-Pas-de-Calais, così tanti nell’ultimo periodo da spingere la Francia a chiedere aiuto a Frontex. Alcuni tenteranno in pieno inverno di attraversare le montagne di Bardonecchia con il rischio di rimanere congelati in mezzo alla neve alta che scende imperterrita nel cuore della notte, proprio lì, dove la gente l’estate gioca a golf. Altri forse dormiranno per strada, vicino alle stazioni, perché l’accoglienza non sappiamo cosa realmente sia. Altri, pochi, ce la faranno a mantenere il volto del sorriso. Il sorriso della terra promessa finalmente trovata.