Tra i maturandi della scuola dove ancora oggi si trovano macchie di sangue. «Clima, diritti, disuguaglianze sono le nostre battaglie. Forse allora non è stata una sconfitta»

La grande sconfitta, la fine di un movimento, la morte violenta di proposte e speranze. Oppure no: un cammino già ripreso, mai davvero interrotto, passato diventato presente nelle battaglie di oggi. Provare a rovesciare la narrazione è possibile, vent’anni dopo, persino nel luogo dove la ferita del G8 genovese del 2001 si respira, pulsa ancora. Tra gli studenti del liceo magistrale Sandro Pertini, via Cesare Battisti, Genova, nella scuola passata alla storia come “Diaz” per via della sua vecchia denominazione e le immagini sconvolgenti della notte più buia della nostra democrazia. Tra gli attrezzi della palestra della mattanza, che nel tempo è stata ripulita, ristrutturata, riverniciata, ma dove ancora anni dopo, sotto le doghe del parquet da sostituire, il personale scolastico racconta di aver trovato le tracce del sangue penetrato dal pavimento nelle ore della macelleria messicana. Un simbolo nel simbolo dove quest’anno, per la prima volta, si sono diplomati ragazzi e ragazze che in quel luglio di protesta e repressione neanche erano nati. E forse proprio per questo, «forse, chissà», - si dicono da soli questi genovesi classe 2002, i maturandi in quello che nel frattempo è diventato il primo liceo per numero di iscritti della città, spaccato perfetto di una generazione - sembrano i cittadini giusti a cui affidare le aspirazioni di allora, e non solo quelle.


Cresciuti a rivoluzione digitale già avvenuta, globalizzazione fatta sistema, Facebook, Twitter e Amazon a regolare mondi e mercati, i diciannovenni nel pieno della cosiddetta generazione Z non sono i cuccioli del maggio di stagioni passate, passati per le piazze quasi per via naturale. Perennemente connessi, portati per la relazione, sono nel complesso più informati, «impariamo ovunque: su Instagram, sui social, in rete» - si raccontano sul piazzale dell’ex Diaz - ma anche per i più impegnati di loro una propria coscienza politica è scoperta recentissima, cresciuta per lo più con il ritorno del dibattito ambientalista, qualcuno nelle piazze ritrovate «con le proteste contro i decreti sicurezza, due anni fa». La politica “istituzionale” è concetto antico («un carrozzone che si parla addosso, di sicuro non a noi»), l’idea di sinistra ancora peggio («è più facile riconoscere e capire cosa vuole la destra, la sinistra cosa propone?»). «In tutto questo, la pandemia e i lockdown hanno spazzato via tutto, chiuso le aule, annebbiato interessi, a qualcuno ha fatto molto male e tutti gli altri li ha costretti a trovare nuovi stimoli», ammette Laura Campasso, la rappresentante di istituto, il sogno di un 100 come voto finale e futura studentessa di sociologia.


Un’inevitabile lontananza dagli schemi di un tempo che fa sembrare questi ragazzi i soli ad avere l’invidiabile spensieratezza e il giusto distacco per poter parlare di quanto successo vent’anni fa, «e poi guardare avanti». Se è vero che la gran parte dei ventenni oggi conosce benissimo la storia del crollo delle Torri gemelle e molto meno quella del G8 sotto casa, almeno tra i diplomati dell’anno del ventennale, e nella scuola diventata emblema, quella del vertice del 2001 pare però eredità viva e consapevole. Per come le violenze soffocarono nel sangue le idee, ma non solo. «Più che i racconti dei nostri genitori, sull’argomento abbiamo visto film, documentari, a scuola sono stati organizzati incontri: a pensarci fa ancora impressione passare da quelle scale, quella palestra, le nostre aule», racconta Isabella Vitale, 19 anni, ancora in attesa del suo esame orale. A coinvolgere non è tanto l’incredulità nello scoprire quanto successo negli stessi luoghi della propria vita di tutti i giorni, però, «fa strano vedere come un movimento di popolo sia stato schiacciato in quel modo da apparati dello Stato e soprattutto come certi temi fossero così centrali già nel 2001, più o meno come ora», insiste Luca Ghizzoni, orale già sostenuto, un futuro prossimo a Giurisprudenza.


Se del no alla globalizzazione del movimento di allora facevano parte gli allarmi sul rischio collasso climatico del pianeta, il rifiuto di un modello di sviluppo globale, i concetti di beni comuni e diritto alla migrazione, «oggi», è la versione dell’annata 2002, «tra i ragazzi della nostra età si parla quasi delle stesse cose: tutela dell’ambiente, diritti civili, diritto al lavoro e migrazioni». Tutti punti di incontro, è l’idea di fondo, tra le richieste di allora e i temi di oggi. Troppi per non «arrabbiarsi», nota qualcuno: «Fanno pensare a quanto sia difficile cambiare le cose». Troppi anche per non pensare positivo: «Magari in modo diverso, ma le cose per cui lottare le abbiamo anche noi, le domande ce le si continua a fare», continua Elena Ivaldi, un’altra maturanda. «Magari si parla tanto e si concretizza poco, però alle cose del mondo ci si pensa, e sull’urgenza di certe in particolare ancora di più. La mobilitazione dei più giovani in campo ambientalista è la più visibile, ma sul tema dei diritti della comunità Lgbt, ad esempio, il coinvolgimento è quasi totale, è energia positiva che sta facendo fare passi avanti a tutti. E di sicuro sta portando a risultati decisamente migliori rispetto a dieci, venti anni fa. Per noi sono normali cose che non lo erano. O no?», continua Barbara De Muro, esame finito e pre-iscrizione a Scienze dell’educazione fatta. 
Per paradosso ma non troppo, in sostanza, in questa estate dei vent’anni dopo si candidano a portare avanti le battaglie di sempre i figli stessi di quella globalizzazione che vent’anni fa si contestava. L’ambientalismo non sarà più quello estremamente politico del 2001, oggi è patrimonio universale e globalizzato, ma «la battaglia per il clima ha insegnato a gran parte della nostra generazione cosa vuol dire partecipare, prendere posizione e fare la propria parte: Fridays for Future ha coinvolto persone che non erano mai state a una manifestazione». C’è molta più facilità nel rivendicare diritti individuali, probabilmente, ma nel mondo dopo il Covid-19 anche tra i diciannovenni si discute in tema di diritto collettivo alla salute. Qualcuno azzarda a fare propria anche la battaglia per la moratoria sui brevetti dei vaccini anti coronavirus. «Dopo la pandemia è più chiaro come la salute di ognuno di noi sia comunque diretta conseguenza della salute di tutti», riflettono altri. E anche così si spiega «la marea», la chiamano, di pre-iscrizioni a Medicina e altre facoltà dell’ambito sanitario. Nella scelta del futuro da conquistare non c’è ancora il timore per un lavoro da inventare, in questo liceo sceglie di continuare gli studi quasi il 90 per cento degli studenti: c’è chi insegue corsi di studio all’estero, chi passioni di sempre, chi un posto nel sistema sanitario per prendersi cura di una comunità. 


Vallo a spiegare a chi non c’era, insomma, tutto il male di quei giorni là. Il senso di ingiustizia vissuto sulla propria pelle da chi allora aveva venti, trenta, quarant’anni, la rabbia di chi ha perso speranze e fiducia, spinto a manganellate verso un nuovo riflusso e l’anti politica. La generazione che il G8 l’ha visto solo sullo smartphone oggi riprende i temi di allora e prova a guardare lontano. «Noi non c’eravamo, forse non possiamo capire, ma questi siamo, questo pensiamo, e se parliamo di passi avanti e temi comuni forse tutta ‘sta sconfitta questo G8 nella nostra città non lo è stata». Come a dire, soprattutto dirci, che la narrazione si può rovesciare e forse pure rilanciare, almeno nella versione dei diciannovenni della Diaz. E quantomeno per una questione anagrafica, probabilmente, conviene fidarsi di loro.