Ecologia
«Cortei e proteste non bastano più: per salvare il clima facciamo causa allo Stato»
Per la giornata mondiale dell’ambiente gli attivisti portano il Paese in tribunale per inadempienza. Perché l’Italia è al sesto posto nel mondo per disastri ambientali. E non c’è più tempo da perdere
Sono 203. E sono pronti a chiamare alla sbarra lo Stato Italiano per la prima grande causa collettiva sui cambiamenti climatici. I proponenti l'hanno chiamata “La causa del secolo” perché la scienza non ha dubbi: nel corso di questo secolo si giocano i destini del pianeta. L'iniziativa è promossa dalla campagna Giudizio Universale, coordinata dall'associazione A Sud, che raccoglie le adesioni di movimenti, enti e comitati come Fridays for Future, la Società Meteorologica Italiana, Medici per l'Ambiente, Terra!Onlus, Forum Italiano Movimento per l'Acqua e tanti altri.
Nella giornata che tutto il mondo dedica all'ambiente, il 5 giugno, i promotori si sono dati appuntamento a Montecitorio per presentare la causa avviata contro lo Stato e raccontare con un'iniziativa pubblica i contenuti degli atti depositati al tribunale civile di Roma. A spiegare l'iniziativa, in anteprima a L'Espresso, è Marica Di Pierri, attivista, portavoce di A Sud e curatrice del saggio “La causa del secolo” (edizioni Round Robin) che uscirà nello stesso giorno.
«Chiederemo al giudice di dichiarare che lo Stato italiano è responsabile di inadempienza nel contrasto all'emergenza climatica. Chiederemo che sia condannato a ridurre le emissioni moltiplicando gli sforzi attualmente in campo». La necessità di un’accelerazione riguarda tutti gli Stati, per questo quella delle azioni legali climatiche è una pratica che si sta ripetendo di Paese in Paese, sempre con lo stesso obiettivo: chiedere ai governi di cambiare marcia sui temi ambientali, perché non c'è più tempo da perdere.
Dal Pakistan all'Irlanda, dai Paesi Bassi alla Colombia, dal Canada alla Francia, Corti supreme e tribunali di tutto il mondo stanno convergendo rapidamente verso il riconoscimento di una giurisprudenza realmente universale, riportando gli Stati al dovere di “fare di più” per affrontare questa emergenza con lungimiranza e diligenza. Quello che gli attivisti chiedono sono azioni e non risarcimenti monetari. Le responsabilità sono tutte nei numeri, spiegano: se l'Italia continuasse al ritmo attuale, raggiungerebbe con cinque anni di anticipo il livello di emissioni (carbon budget) che si è impegnata a raggiungere nel 2030.
Eppure per la prima volta in Italia è stato istituito un ministero della Transizione ecologica. Una svolta green impressa dal governo Draghi che non convince fino in fondo però. «Siamo molto preoccupati che si tratti solo di un cambio di etichetta», spiega Di Pierri, «e invece siamo convinti che dovrebbe essere un'occasione anche per i fondi che sono stanziati nel Next Generation Eu. Per far partire una transizione serrata verso la decarbonizzazione definitiva del nostro Paese. Vediamo ancora provvedimenti che riguardano autorizzazioni estrattive che non sembrano andare nella direzione di fermare lo sfruttamento delle fonti energetiche fossili e di favorire un passaggio rapido e radicale a fonti energetiche di tipo rinnovabile. E poi ci sono quei 35,7 miliardi (calcolati da Legambiente nel 2020, n.d.r.) che spendiamo in “Sussidi Ambientalmente Dannosi””, incentivi che sostengono, direttamente o indirettamente lo sfruttamento di fonti energetiche fossili: petrolio, gas e carbone».
Siamo un Paese fragile dove il cambiamento climatico mostra ogni giorno i suoi effetti. Non è catastrofismo: è la cronaca che parla. Il territorio italiano è particolarmente esposto e l'aumento dei fenomeni climatici estremi presenta sempre più il conto in termini ambientali e di vite umane. Non c'è solo l'acqua alta di Venezia: inondazioni, trombe d'aria, frane hanno interessato negli ultimi dieci anni 507 comuni, con un bilancio di 251 morti. Nel 2018 ben 148 eventi hanno causato oltre 4500 sfollati e 32 vittime. Nel 2019 le vittime sono state 42, trascinate via da fiumi d'acqua o fango. A immaginarle sembrerebbero scene da terzo mondo e invece avvengono in uno degli stati più ricchi, appartenenti al G7: l'Italia. Secondo il Climate Risk Index 2020, il nostro paese si classifica al 28° posto per numero di morti causati dalle conseguenze di eventi climatici estremi (addirittura al sesto posto se calcoliamo gli ultimi 20 anni), mentre per le perdite economiche è all'ottavo posto per perdite in milioni di dollari. Lo stesso premier Mario Draghi, nel suo discorso programmatico, si è fatto carico di un pezzo del problema dichiarando che «l'innalzamento del livello dei mari potrebbe rendere ampie zone di alcune città litoranee non più abitabili».
La deforestazione, la scarsità delle risorse idriche che vedono sempre più alcuni comuni costretti al contingentamento, l'innalzamento delle temperature e l'aumento dei fenomeni atmosferici estremi, nonché la crisi sanitaria che è legata alle tematiche ambientali, hanno portato gli attivisti a chiamare in causa lo Stato. E a lanciare un appello che ha raccolto 12mila firme e che è possibile firmare sul sito www.giudiziouniversale.eu.
Lo scopo è sostenere la causa e spingere lo Stato Italiano ad agire per garantire il diritto umano al clima, una richiesta che trova il suo fondamento giuridico nella Convenzione Quadro delle Nazioni Unite che definisce «i cambiamenti climatici motivo di preoccupazione comune per il genere umano». La premessa è che senza stabilità climatica l'intero sistema dei diritti, dall'abitare all'acqua, è in pericolo. E per garantire la dignità umana non basta cambiare nome a un ministero, soprattutto ora che non c'è più tempo da perdere.