Il racconto per immagini del rione storico del capoluogo ligure: la scommessa di un ghetto che vuole essere città aperta (foto di Alessio Cassaro)

Nella città dove le zone rosse sono diventate istituzione, sotto i ponti crollati come nelle proteste di un G8 ormai lontano di vent’anni, c’è una strada tra tutte che pare condannata a fare da «zona di allerta» per storia, forse vocazione, di certo sentire cittadino. Via di Prè, 500 passi di pietre consumate all’ombra dei palazzi medievali più antichi, sbocco naturale della zona dell’angiporto e da sempre prima casa accogliente di ogni tipo di immigrazione, a Genova è il più multietnico, popoloso e nascosto dei vicoli. Un rifugio diffuso per le tante, diverse comunità straniere radicate sul territorio, almeno una decina tra africane, asiatiche, sudamericane, che la gran parte dei genovesi non frequenta in parte perché fuori dai flussi commerciali e turistici, in parte perché percepita come poco sicura per via di una criminalità in realtà comune al resto del centro storico. Una periferia in piena città, insieme pulsante e dimenticata, che oltre a risultare un affascinante paradosso, però, è oggi anche e soprattutto un manifesto in chiaroscuro di una città e un intero Paese. Un’Italia dove l’integrazione sembra potersi fare solo sulla strada, «a braccia», senza contare più di tanto sull’aiuto dello Stato.

Vicinissima ma aliena ai giri dello shopping e delle attrazioni turistiche, solo a rileggerne la storia, del resto, via Prè si scopre ghetto di oggi come era ghetto ieri. Nel primo dopoguerra era piazza popolare di contrabbando di sigarette e prostituzione, su qualche muro si leggono ancora sbiaditi gli avvisi con cui le forze alleate mettevano in guardia i soldati di passaggio dalle tentazioni della zona: «This Area off limits to all allied troops». Anche facendo parte del centro storico più letterario d’Italia, poi, è rimasta fuori da quasi tutto, da quasi sempre. Persino Fabrizio De André, per citare il più illustre e inflazionato dei figli di queste strade, cantava via del Campo e frequentava altri vicoli. Si sono fermate prima di arrivare le grandi manovre di riconversione della città, un tempo industriale e oggi (ancora) aspirante turistica. E il processo di «normalizzazione» in corso, un piano di riqualificazione varato dall’amministrazione a suon di milioni di finanziamenti governativi, obiettivo dichiarato portare «più sicurezza e più pulizia nel quartiere», agli occhi di molti pare solo un primo tentativo, tutto da realizzare, di gentrificazione.
 

 

A raccontarne lo spirito, così, nonostante le trasformazioni di una città aperta per natura ma sempre più povera, di abitanti e non solo, sono ancora l’umanità varia e il quotidiano laborioso di chi la vive. Fanno notizia gli appartamenti sovrappopolati e le operazioni di polizia contro piccolo e grande spaccio, ma a darle vita è l’ostinazione con cui abitanti e commercianti tentano di fare di Prè «una comunità larga». Una terra di tutti, più che di nessuno, «dove chi finisce a spacciare lo fa perché non ha alternativa, qualcosa deve pur mangiare», ammette Don Rinaldo Resecco da San Sisto, la parrocchia di via, ma capace di fare «da mamma, pronta ad aiutare e far aiutare gli uni con gli altri», fa notare Mustafà Gharib, l’imam del centro islamico, che da anni organizza cene «inter religiose» in moschea, in un incredibile spaccato di mondo reale. Un «laboratorio», lo definisce Alessio Cassaro, grafico e fotogiornalista, l’autore degli scatti di queste pagine, che tra tante difficoltà, nel Paese dove le politiche in tema di immigrazione non hanno ancora una reale direzione, parla di un modello che funziona.

Nell’integrazione dal basso di via Prè convivono fianco a fianco imprenditori italiani e sarti senegalesi, vite ritrovate come quella di Mamassa, ivoriano, dipendente di una piccola ditta di pulizie scampato all’inferno della Libia, e giovani artigiani come Federico Cartasegna, liutaio trentenne genovese che grazie ad un bando comunale ha aperto la propria attività «in una via forse brutta ma non cattiva, abbandonata all’incuria ma non così pericolosa come si crede». E dove a fare la parte dell’istituzione, collante necessario a tanta diversità, sono più che altro associazioni di volontariato e collettivi spontanei. Chi organizza lezioni di italiano, chi mette spazi e braccia a servizio delle giovani madri straniere, chi fornisce assistenza sanitaria gratuita, come l’associazione Ambulatorio internazionale Città aperta. Presidio, spiega Raffaella Feletti, volontaria, a disposizione di «stranieri che non hanno accesso al sistema sanitario, persone dimenticate in un limbo dal Paese dove vivono, alcune anche da decenni». Simbolo più limpido di un cortocircuito generale che qui si nota più che altrove.
 

Governata da un’amministrazione che in questa zona ha previsto investimenti sulla sicurezza e bandi per studenti, ma per ora ha fatto poco in termini di politiche abitative, e di concreto varato solo un’ordinanza a firma leghista che impedisce l’apertura di ristoranti etnici e negozi non «tipicamente liguri», la Genova di Prè è in fondo l’Italia ancora senza Ius soli, dove vive e lavora chi non vota, fatta di orfani di cittadinanza. Come prova a riassumere Giorgia Losi, 30 anni, ristoratrice: «Io ho investito qui sognando di accompagnare il quartiere nel diventare il più giovane, universitario, multiculturale, moderno della città, ma in tanti anni ho visto solo timide prove di rilancio commerciale, con il rischio di trasformare la via in una galleria di tipicità liguri senz’anima. Nei prossimi cinque anni sono previsti grandi investimenti, ma l’impressione è che si continui a perdere di vista la vera ricchezza di questo luogo, il fattore umano, la multiculturalità sana, quell’integrazione spontanea che se ben supportata può generare altra ricchezza. La verità è che in questa via non c’è elettorato a cui guardare, rimane periferia, lasciata per destino a sé stessa come tante altre in Italia. Rimanendo città aperta, ma solo tra le sue mura».