Storie e ricordi indelebili, cicatrici che bruciano ancora per chi fa i conti con l’orrore identico a tutte le latitudini. L’associazione a dicembre tocca la cifra tonda. E celebra l’evento in un modo raccontando il dolore

Dicembre 1971: nasce Medici senza frontiere. Marzo 2021: dopo cinquant’anni, Msf, che ha ricevuto il Nobel per la pace nel 1999, si occupa delle emergenze in più di ottanta paesi. Guerre, epidemie, migrazioni, disastri naturali. Loro ci sono. E tutti insieme, ferita dopo ferita, diventano un grande occhio sul mondo. Dal Congo al Myanmar, dall’Iraq al Mediterraneo, dalla Siria al Messico: c’è qualcuno, che vede e racconta.


Msf non cura solo le ferite. Le descrive, le inserisce in un contesto storico, le riporta in un discorso umano. Le voci degli operatori, medici e non solo, diventano un mappamondo, le giri con un dito e punti un paese. Qui. Sta succedendo adesso.


Ascoltate a distanza di tempo invece, queste testimonianze diventano fonti di storia contemporanea. Ogni data saliente è coperta all’istante, poi resta la traccia. La grande storia diventa un sottile percorso – fra le macerie o nella giungla, nel deserto o in mezzo al mare – di persone che l’hanno guardata troppo da vicino per non sentirsi ferite anche loro.


In occasione di questo anniversario, il 23 marzo è uscita l’antologia, “Le ferite” (Einaudi), in cui sette grandi autrici e sette grandi autori interpretano il tema della ferita in modo letterario. Ma come lo declinano gli operatori di Msf che sono stati sul campo e quelle ferite le hanno curate di persona? In che modo sono rimasti feriti dal dolore degli altri?


Eleonora Belli, responsabile della salute mentale, adesso è in Nigeria ma con la testa è ancora in Myanmar. «La mia personale ferita ha il volto di tre rifugiati Rohingya», dice. Menara, scappata dal Myanmar, arriva in Bangladesh, incinta e con la figlia di cinque anni, Shamsu. Ha perso tutta la sua famiglia nel viaggio e ha un grave disturbo psichiatrico. «La bambina aveva uno sguardo duro, quello di chi sa già che deve cavarsela da sola e preoccuparsi per la persona che dovrebbe proteggerla, sua madre». Nell’ospedale di Msf nasce Habib, con una grave malformazione. Lo stato mentale di Menara peggiora, non si prende cura del figlio e Habib, già fragile di suo, muore di malnutrizione. A distanza di un anno, da un altro continente, Eleonora Belli continua a pensare a loro, «non riesco a curarmi da quel senso di impotenza che ancora mi spegne per qualche minuto».


Poi c’è il Mediterraneo, per alcuni la ferita non rimarginabile si trova sempre lì, anche dopo avere girato il mondo. Oussame Omrane, promotore della salute, non può dimenticare la morte di un bambino siriano di quattro anni nelle acque della Grecia, le urla di una madre che vede colare a picco nel Mediterraneo entrambi i figli, il cadavere di un neonato nel relitto di un gommone, la morte di una donna incinta a bordo della nave. Stesso sentimento, Chiara Montaldo, infettivologa. Per lei ferita ormai significa pelle bruciata dalla miscela di acqua salata e benzina. «Pelle che si appiccica ai vestiti e servono le forbici per tagliarli, cercando di non fare troppo male. Credo che non guarirà mai dai nostri occhi, perché è troppo il sale e la benzina che il mondo continua a buttarci sopra».


Andrea Re, logista, e Mirella Ricciardi, responsabile della salute mentale, sono ancora turbati da quello che hanno visto nella Repubblica Democratica del Congo, nel Nord Kivu. «Intorno scimmie, serpenti, babbuini e i rari okapi, villaggi di terra e strade dissestate. I protocolli di sicurezza imponevano un coprifuoco alle 18. Si usciva per lavorare e si rientrava alla base», racconta Mirella Ricciardi, che assisteva vittime di violenza sessuale. Donne, uomini e bambini. Duro per i medici, figuriamoci per i pazienti che per raggiungere la clinica dovevano attraversare strade pericolose, in un paese devastato dalle epidemie, dalla fame, dai gruppi armati. Interessante la sua definizione degli operatori di Msf: acrobati. «Ci teniamo. Ci separiamo. Ci supportiamo. Ci lasciamo. Ci ritroviamo ancora. In un altro luogo. In un altro tempo. In un’altra missione».


Andrea Re ha sempre in mente una ventina di civili uccisi in Congo, a pochi chilometri da dove viveva lui, da gruppi armati che lottavano per la supremazia su una miniera di cobalto. «Nella foresta i quattro chilometri che li separavano dall’ospedale erano troppi da percorrere in quelle condizioni, senza ambulanza, con l’assenza di qualsiasi infrastruttura. Un’occasione per guarire, loro non l’hanno avuta».


Francesca Tarantini, medico, lavora nel campo di Shatila, vicino a Beirut. Lo descrive così: «Un ammasso di costruzioni precarie, con improbabili piani rialzati aggiunti nel tempo. Poche finestre, qualche straccio a schermare la vista da fuori. Bambini che corrono a piedi scalzi in un reticolo di stradine. C’è un groviglio inimmaginabile di cavi elettrici che corre basso, ovunque, si arrampica sulle facciate e raggiunge ogni angolo visibile. Man mano che il campo è cresciuto, i cavi sono aumentati e adesso la situazione è completamente fuori controllo. Ogni anno ci sono centinaia di morti fulminati, per quei cavi elettrici, quasi tutti bambini. Succede durante la stagione delle piogge, quando il maltempo fa cadere un cavo e l’acqua nelle strade fa il resto».

 

Francesca Tarantini è lì da poche settimane, eppure ha la sensazione di averli già visti, quei rifugiati. Le sembrano le stesse persone che ha incontrato cinque anni prima, nel campo di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia. Strani scherzi fa la memoria. «Ero a Idomeni quando le frontiere si sono chiuse all’improvviso, da un giorno all’altro», racconta. «Nel campo, costruito per contenere 1.500 persone, in pochi giorni se ne contavano più di 6.000. Il caos. Gli autobus continuavano ad arrivare, a getto continuo, ma il confine era chiuso. Erano intrappolati lì. Abbiamo cominciato a distribuire tende canadesi ma lì dentro, la notte, si moriva di freddo. A novembre, si andava già sotto lo zero. Nel campo c’erano code interminabili per usare i bagni, per un po’ di cibo o per l’assistenza medica. Bambini di pochi mesi venivano lavati all’aperto, in pieno inverno, con una bottiglia di acqua minerale. Ma la cosa più difficile era incontrare i superstiti dei naufragi. Li ricordo uno a uno. Un nonno siriano che aveva perso la nipotina in acqua. Aveva portato la figlia in ambulatorio perché non parlava più, non mangiava, non voleva neanche camminare. E un ragazzo minorenne che non era riuscito a tenere a galla il fratello più piccolo quando il barcone si era rovesciato. Non voleva telefonare a casa».


Con Martina Marchiò, infermiera, ci spostiamo su un’altra frontiera, in Messico. Non può dimenticare Lorena, «i suoi occhi che si muovevano in ogni direzione, lo sguardo basso e perso». «Lorena scappa da El Salvador con la figlia di tre anni. Una sera le dicono di aspettare al buio il momento buono per la traversata, prendono lei e la figlia e le chiudono in una stanza per settimane. Vogliono soldi, lei non ne ha. Quindi patteggia. Basta che portino di là la bambina. Lei rimane e viene stuprata ininterrottamente per mesi. Poi scopre di essere incinta, il figlio ha i geni di chi l’ha violentata, non lo vuole. Denuncia, ma per le istituzioni lei non è nessuno, la burocrazia ha tempi eterni e Lorena è solo un nome in una lista infinita. Questo luogo non perdona, non c’è legge, non c’è giustizia».
Tutti gli operatori, nelle loro memorie, insistono sulle ferite invisibili, le più difficili da curare. Parlano di gente annientata dal dolore, dai lutti, dalle violenze, dai traumi. Si cambia paese, si cambia storia, e il panorama è lo stesso: un’umanità devastata dentro, danneggiata nella testa e nell’anima, magari per sempre.


«Ho ancora davanti agli occhi il viso di un uomo, sono stata a casa sua nella pianura del Ninive. Era stato il maestro della scuola elementare del villaggio. Dopo la notizia dell’arrivo dell’Isis, in molti erano fuggiti. Lui no, e aveva subito le prepotenze dei gruppi armati islamici, poi scalzati dalle forze curde e dalle bombe della coalizione. L’Isis non era rimasta a lungo ma era rimasto il sospetto che la comunità liberata avesse simpatizzato con loro. I superstiti erano intrappolati in quei villaggi semidistrutti, isolati da posti di blocco. Per strada non girava anima viva, nemmeno le galline, i negozi erano chiusi o demoliti, c’era un silenzio inquietante. Perfino il nulla-osta per andare in ospedale richiedeva lunghe negoziazioni con le autorità curde. Suo figlio avrebbe voluto frequentare l’università ma non poteva più uscire. In una stanza, coperto da un panno, era in bella mostra un computer, anche se internet non c’era. I risparmi erano finiti, vivevano di baratti. Lui ci ha ringraziati perché gli ricordavamo che esisteva un po’ di umanità. Ecco, io ricordo sempre quell’uomo dignitoso. Mantenere una clinica aperta in uno degli edifici ancora in piedi, in un posto tanto pericoloso, aveva senso anche solo per questo», racconta Gabriella Bianchi, responsabile della comunicazione, dopo una missione in Nord Iraq.


Marco Puzzolo, capo progetto, che oggi è in Yemen, è ancora tormentato dal campo di Al-Hol, in Siria nordorientale, pieno di sfollati dello Stato Islamico. Gli uomini, sospetti terroristi, erano detenuti. Le donne e i loro figli invece venivano mandati lì. «Tutti i bambini avevano ferite da guerra. Ricordo un ragazzino su una sedia a rotelle che aveva perso entrambe le gambe, veniva da Aleppo, dalla parte opposta della Siria. Tanti come lui erano arrivati nello Stato Islamico insieme alle loro famiglie da varie parti del paese. Anzi del mondo. C’era una bambina che tremava per una reazione nervosa dovuta alla presenza di schegge di proiettili all’interno del cranio. Ferite ovunque mi voltassi. Erano sfollati, ma prima facevano parte dello Stato Islamico. Potevano essere considerati vittime? Un discorso complesso, ma noi di Msf eravamo lì per preservare la vita umana a prescindere da qualsiasi cosa».


Fra centinaia di assistiti c’è sempre qualcuno che non si riesce a dimenticare: un singolo individuo che sfugge al salvataggio di massa, e perseguita la memoria di chi l’ha incontrato con il suo viso, la sua voce, la sua sofferenza personale. È la storia intima di Msf.