Lezioni a singhiozzo, disposizioni controverse, fondi al lumicino. Così la scuola manca la sua funzione. Il grido d’allarme dei prof

Vista da vicino, la scuola sembra una polveriera. Marce indietro sul numero di positivi necessari a mettere le classi in Dad, comunicazioni delle Asl che non arrivano in tempo e prolungano le ore da remoto, docenti preoccupati per il calo di apprendimento degli alunni e per la loro salute, che spesso si perde nelle pieghe di linee guida e regolamenti poco chiari. C’è chi racconta la sua esperienza e preferisce rimanere anonimo, «sono precario non voglio perdere il posto», e chi ricorda con dolore le conseguenze del lockdown: «Prima che scattasse ho avuto solo il tempo di insegnargli come si impugna una matita». E nelle giravolte di politica e sanità, nel balletto di chiusure e riaperture, il prezzo più alto lo hanno pagato i bambini, grandi invisibili della pandemia.

 

Il protocollo da seguire per loro differisce rispetto a quello adottato nei licei. Perché scuole dell’infanzia e primarie prevedono solo uno o due casi di positività. Nel primo, la classe continua l’attività in presenza. Ma si allerta subito il medico di famiglia e la Asl per i tamponi, il tracciamento e per le decisioni di sua competenza. Nel secondo, scatta la didattica a distanza. Spesso però, denuncia Antonello Giannelli, presidente di Anp (l’Associazione nazionale presidi), «le aziende sanitarie locali non sono riuscite a effettuare i tamponi con rapidità. Dovrebbero essere fatti sui contatti dal primo giorno, se non accade si è già in ritardo. E andrebbero ripetuti al quinto. In caso contrario, la Asl potrebbe non certificare la negatività e prolungare inutilmente la Dad».

Sul perché l’Italia abbia deciso di combattere la pandemia a suon di banchi a rotelle e finestre spalancate, mentre in altri Paesi (tra cui Austria e Svizzera) si ricorre anche ai test salivari, Giannelli chiarisce: «Non hanno un’efficacia elevata. La questione è non aver potenziato il sistema sanitario e non avere ampliato gli spazi delle scuole». La stessa carenza denunciata da Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc Cgil, una delle sigle in piazza per lo sciopero del 10 dicembre. «Lo scorso anno scolastico era stato stanziato un miliardo per affrontare il sovraffollamento, potenziando l’organico e smembrando le classi numerose. I fondi, quest’anno, sono pari a un terzo».

Mancano spazi e occasioni di socialità, opportunità per lezioni all’aperto e per coltivare i rapporti tra gli alunni. «In questo periodo difficile sarebbe bello tornare al più efficace degli approcci didattici, il rapporto con la natura e con gli altri», dice Elvira Quagliarella, maestra dell’Istituto Virgilio IV di Scampia. La socialità è infatti una delle componenti con cui, secondo Maria Cristina Matteucci, professoressa di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’università di Bologna, i bambini imparano. «A scuola non si apprende solo attraverso gli strumenti classici, serve anche l’emotività e un ambiente positivo fatto di relazioni». Secondo uno studio di Save the children, pubblicato a marzo 2021, a un anno dall’inizio della pandemia bambini e adolescenti hanno perso in media 74 giorni ciascuno, più di un terzo dell’anno scolastico. E, aggiunge Matteucci, gli effetti sono più profondi sui piccoli studenti provenienti da contesti familiari e sociali svantaggiati: «Un ulteriore ostacolo alla funzione di ascensore sociale che la scuola cerca di svolgere». Per questo, aggiunge Matteucci, «offrire supporto psicologico è fondamentale e serve a intercettare il disagio di bambini e adolescenti».

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Costretti troppo a lungo alla Dad, come gli alunni di Susy Pascale, dell’Istituto comprensivo Rocco Cinquegrana, in provincia di Caserta. «L’anno scorso il presidente De Luca ci ha chiuso subito, a ottobre, e prima che scattasse il lockdown ho avuto solo il tempo di insegnargli come si tiene in mano la penna. Abbiamo dovuto mettere in pratica un metodo sperimentale: le mamme mi consegnavano i quadernini dei figli, io ci scrivevo sopra le lettere da imparare e glieli riportavo, così i bambini potevano copiare. Poi me li ridavano per le correzioni, è stato terribile». Quando le lezioni sono riprese, racconta, «siamo dovuti ripartire da zero con la socialità, i piccoli erano ingestibili. Il livello era sceso di molto nelle prove di verifica del primo bimestre. Ma gli effetti peggiori li hanno avuti gli studenti arrivati in prima media con una preparazione da quarta elementare».

Anche per Marco Rossi-Doria, presidente dell’Associazione “Con i bambini”, impegnata contro la povertà educativa, la Dad è stata un rimedio sterile seppur necessario. «La pandemia ci ha insegnato che le lezioni in presenza non possono essere sostituite dalle nuove tecnologie, né possono esserlo le relazioni. Molti di noi del settore lo sapevano, ma l’opinione pubblica e vari esperti ci hanno tediato dicendo che anche l’insegnamento sarebbe cambiato del tutto. Si può lavorare a distanza, però il focus dell’apprendimento sarà sempre nella socialità. E questa riscoperta è stata una conquista». Perché, soprattutto nelle realtà più difficili, come quella in cui opera la maestra Quagliarella, la scuola fisica è l’unico «baricentro solido in grado di offrire un’alternativa a una vita per alcuni già predestinata». Altrimenti, i bambini si perderebbero nei meandri dell’incuria e della disattenzione. Diventando invisibili. Come in parte accade già: «I diritti dei minori sono scomparsi dal dibattito politico. Li abbiamo considerati solo come figli di lavoratrici e lavoratori e non titolari di spazi vitali. Da anni mi chiedo il perché di questa loro rimozione e lo trovo nel fortissimo e radicale squilibrio demografico, in cui i bambini diventano sempre più una minoranza assoluta e li trattiamo come tali. Innescando un ragionamento lesivo per loro e dannoso per il nostro futuro».

La scuola dovrebbe essere luogo sicuro, per studenti e insegnanti. E non sarà l’obbligo vaccinale a renderla tale. Anche se, spiega Giovanni Corsello, ordinario di pediatria all’università di Palermo, «la malattia è cambiata in quest’anno e il virus del primo lockdown, che in effetti contagiava meno i bambini perché aveva difficoltà a interagire con le membrane e le cellule dell’età evolutiva, con le varianti ha acquisito maggiori capacità di contagio». Bisogna intervenire su distanziamento e personale. Non sempre accade, come raccontano alcuni educatori di Verona che preferiscono rimanere anonimi. Dicono di dover fare supplenza in altre classi pur essendo nel periodo di “monitoraggio”, ovvero in attesa del secondo tampone che certifichi la negatività dopo contatto diretto con un positivo. Denunciando anche come le classi in attesa del secondo tampone vengano mandate a scuola a far lezione mattina e pomeriggio e isolate a mensa e ricreazione. Eppure, mischiate con gli altri negli orari di entrata e uscita.

«Non è che non vogliamo lavorare, vogliamo farlo in sicurezza, senza mettere a rischio gli altri e senza far ammalare i nostri cari», ribadiscono gli educatori. Tutti precari e con contratto annuale, hanno chiesto delucidazioni alla Asl e ai sindacati. Gli è stato risposto che le linee guida non sono obbligatorie ma indicative. Dunque chiedendo al personale in monitoraggio di tenere lezione, il dirigente non sta violando alcuna normativa. E mentre la scuola annaspa nelle zone grigie non chiarite dal ministero dell’Istruzione e dalle Asl, alunni e insegnanti continuano a sentirsi gli ultimi della classe.