Il conto presentato da un anno e mezzo di pandemia è drammatico: i ricoveri al reparto dca del San Raffaele di Milano sono aumentati del 270 per cento, con un’incidenza preoccupante sugli uomini. «Portano addosso il peso dello stereotipo di non apparire mai sofferenti e quando il disturbo viene a galla spesso è troppo tardi»

Quando il mondo diventa un rullo compressore, sopportare il peso della vita è difficile. Ogni anno i disturbi del comportamento alimentare (dca) schiacciano circa 4mila italiani, dieci morti al giorno. I più colpiti sono i giovani dai 10 ai 12 anni con un’incidenza pari al 30 per cento: «Se non ci fosse il Covid-19, sarebbero loro la nostra pandemia», spiega Stefano Tavilla, presidente dell’associazione “Mi nutro di vita”, che per la sua pervicace lotta ai dca è stato di recente insignito ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica dal presidente Mattarella.

Stefano fonda l’associazione nel 2011, con il cuore dilaniato dalla morte della figlia: «Giulia aveva 17 anni quando si è spenta per un arresto cardiaco, era ancora in attesa di entrare in una struttura per i dca in Veneto». Da allora, il fatto che i dca oggi siano a carico del servizio sanitario nazionale non è sufficiente come traguardo: «Quello che uccide è la mancanza di consapevolezza. Oggi in Italia ti reputano più o meno grave in base a un numero, l’indice di massa corporea (bmi), ma la gente non sa che spesso chi muore è normopeso».

In un malato di dca il vero inferno è dentro, là dove la battaglia tra realtà e desiderio inizia con una disidratazione, diventa squilibrio elettrolitico e, nel peggiore dei casi, finisce con un’embolia fatale. Il conto presentato da un anno e mezzo di pandemia è drammatico: i ricoveri al reparto dca del San Raffaele di Milano sono aumentati del 270 per cento, con un’incidenza preoccupante sugli uomini, che rappresentano il 20 per cento degli accessi.

Se nelle donne da 12 a 25 anni i disturbi alimentari sono la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali (Oms), tra gli uomini vengono ancora percepiti come uno stigma: «Il maschio porta con sé il peso dello stereotipo di non apparire mai sofferente e quando il disturbo viene a galla spesso è troppo tardi», spiega Stefano Tavilla.

Per anni Andrea Podestà ha trasposto il peso del mondo sul bilanciere, la palestra diventata luogo di redenzione ed eterna afflizione. Oggi ha 25 anni e sta per laurearsi con una tesi sul suo demone: la vigoressia, che nasce da una percezione distorta del proprio corpo: «Sono cresciuto praticando sport a livello agonistico, fino all’età di 18 anni non ho mai manifestato disturbi psichiatrici» ammette.

Dopo il diploma all’istituto nautico di Camogli e gli studi all’Italian maritime academy di Castel Volturno, giunge il primo imbarco. L’isolamento e il cameratismo tossico rendono la cuccetta una prigione, così tra le onde dell’oceano vengono a galla i primi mostri: «Il cibo era l’unico aspetto che potevo controllare, così l’alimentazione si è trasformata in una sorta di trappola». Sotto gli occhi degli ufficiali, il corpo granitico che Andrea costruisce in palestra non mostra le crepe che lo vivisezionano dentro: «L’ossessione di alterare la mia condizione corporea mi portava a bere fino a otto litri di acqua al giorno e a pesare il cibo, grammo per grammo. Mi ero ridotto a lavare i denti decine volte per placare il mio senso di sazietà e a contare quante volte deglutivo».

È la drammatica ammissione che in un corpo costruito come un tempio, ingerire o negarsi il cibo sono voci del verbo esistere: «Ho aggredito il mio corpo perché incapace di esprimere verbalmente il mio dolore. Ad oggi riconosco che il mio aspetto esteriore era diventato la frontiera della comunicazione di un intimo disagio», dice con la voce incrinata.

Secondo i pochi dati disponibili, il 10 per cento di chi pratica body building è affetto da dca. Lo ammette Michael Anzalone, taekwondoka prima di approdare alla pesistica: «Avevo 23 anni quando ho iniziato a soffrire di ortoressia e binge eating – le abbuffate incontrollate -. Avevo voglia di emergere, ma ho scelto il contesto sbagliato, il mio fisico», spiega. Oggi Gabriele ha 32 anni e ha aperto a Genova un centro fitness dove lavorano anche psicologi, perché consapevole della pressione sociale: «Vedo tanti giovani rovinati dalla loro percezione del fisico maschile. Oggi persino i manichini nei negozi hanno gli addominali», esclama con l’amarezza di chi è vissuto tra le pieghe di un culto stropicciato dell’immagine: «Per questo i ragazzi oggi abusano molto di più di doping e stupefacenti, a loro interessa il risultato immediato. D’altronde, quando per risolvere un problema o trovare un partner ti basta un clic, non accetti né il percorso né il sacrificio. Io avevo sacrificato la mia ragazza, la mia famiglia per gli addominali: guardandomi allo specchio, capii di aver toccato il fondo».

Francesco Nisi, invece, il fondo non riusciva toccarlo dentro di sé, e quell’abisso diventava una dispensa infinita, colma di cibo fino a farlo vomitare: «Svuotavo la cucina e me ne accorgevo solo alla fine. Cominci con due biscotti e finisci per mangiare di tutto», confessa con la spiazzante lucidità di chi conosce il demone di allora, il binge eating. Perché il disturbo alimentare di Francesco cambia faccia: a 13 anni è in un corpo in controluce e ha i segni evidenti dell’anoressia.

Ma è a 22 che, dopo nove anni di silenzio, ritorna sotto forma di un vezzo estetico: «Volevo essere muscoloso, ma temevo di non esserlo abbastanza. Così ho cominciato a sognare un’immagine di me che non esiste». Nella battaglia con i dca, è il male a dettare le regole: «Mi abbuffavo, poi ero attanagliato dal senso di colpa per non avercela fatta, così digiunavo e mi allenavo ossessivamente».

Le montagne russe per Francesco si placano solo con l’aiuto della famiglia e anni di psicoterapia. Oggi, che si divide tra l’attività da videomaker e gli studi in scienze motorie, parla dei dca maschili: «Per uscire da questo labirinto infernale, non bisogna temere di chiedere aiuto. Puoi pensare di farcela da solo, in realtà non ce la fai, perché con se stessi si convive una vita intera».

Sebastiano Rizza era convinto che per fuoriuscire dall’incubo avrebbe dovuto farsi leggero, smaltendo le tossine di anni di bullismo insieme alle fibre muscolari: «Mi sono ammalato di anoressia a 16 anni e l’ultimo ricovero è stato a 22», ricorda a dieci anni da allora. Per lui, convivere con la malattia è stata una scoperta lenta: «All’inizio non te ne accorgi, la gratificazione soverchia il mondo circostante. Ma quando capisci che il male ti ha issato un muro, l’euforia lascia il posto alla negatività. È come stare dentro una macchina, hai un pensiero costantemente proiettato sul tuo corpo e ti ripeti che non ti piaci».

Sebastiano ricorda anche la fatica di aver urlato il suo disagio in ambienti che avrebbero dovuto prendersi cura di lui: «Ero da solo nel mio percorso, nei primi ricoveri non ero capito. Tra diagnosi mediche sbagliate e paura di accettare il male, a un certo punto mi sono anche domandato se avesse senso lottare, quando gli altri non ti comprendono».

Oggi ammettere che i dca non hanno genere non basta, se gli occhi del mondo propongono un ancora un modello di mascolinità performante: «Conosco padri con disturbi alimentari che hanno paura del giudizio dei figli e figli che temono di non essere compresi. Ricordo ancora una madre che mi ha ringraziato per aver parlato della mia storia, perché finalmente suo figlio, ricoverato in ospedale, sarebbe stato compreso. Sembra impossibile, ma dal male si può guarire, se prima lo si riconosce».

Sebastiano parla dei dca come malattie della comunicazione, perché alla base c’è un rapporto interrotto con l’altro, reso manifesto nel proprio corpo. Ne parla lo psicoterapeuta Matteo Lancini nell’ultimo libro “L’età tradita” (Raffaello Cortina Editore): «Nel momento in cui si dovrebbe fiorire, i ragazzi si suicidano socialmente, perché a canoni di bellezza maschile sempre più esigenti si uniscono elementi di successo e popolarità, caldeggiati dai social».

Per il presidente della Fondazione Minotauro, però, sarebbe vile prendersela coi social: «Demonizziamo i nostri ragazzi e l’uso smodato di Internet, ma non dimentichiamoci che questa è una società costruita dagli adulti. Critichiamo i modelli proposti dai social, ma ci domandiamo chi è che propone questi modelli o chi gestisce il marketing? Credo che gli adulti debbano prendersi la loro fetta di responsabilità», puntualizza.

Il disagio si amplifica se a non comprenderlo sono gli stessi medici: «Mi sono scontrato più volte con loro, perché volevano dimagrissi», spiega Mattia Rivellini, 29 anni, che negli anni da judoka ha nascosto il suo binge eating sotto il tatami fino a quando, malgrado i successi delle gare, il vuoto è diventato incolmabile: «Ti senti frustrato, anche la tua famiglia non può aiutarti, è il senso di vuoto che ti mangia. Quando arrivi a quel punto, o chiedi una mano o ti ammazzi. Io ho chiesto una mano», chiosa laconico, lasciando al silenzio le ultime battute.

È l’insidia dei disturbi alimentari, capaci di anteporre la scelta di annientarsi a un profondo desiderio di vivere. Desiderio appunto, distanza dalla propria stella, che attraversano con le loro storie e sofferenze questi grandi eroi d’argilla.