La memoria coltivata attraverso i murales che diventano simbolo della lotta al disagio. Così le opere degli artisti vengono adottate dall’intero quartiere

«Guarda che per vederlo bene devi inquadrarlo dal telefono, altrimenti non rende». Una signora dal passo svelto, mano intrecciata con quella del figlio, si rivolge a un passante assorto nei colori del celebre Bacio all’uscita della metro Jonio. Realizzato lo scorso marzo dall’artista Krayon in stile pixel-art, il murale ritrae due donne che si baciano sorridenti. In basso a destra, il numero verde di Gay Help Line. «Volevamo mandare un messaggio tramite un linguaggio artistico-culturale, e al contempo fornire uno strumento concreto alla comunità Lgbt. È un’iniziativa che deve essere replicata sistematicamente», commenta Pietro Turano, attore e portavoce di Gay Center. In Italia si tratta del primo murale di questo genere autorizzato dalle istituzioni. «Oltre ad accettare la proposta, abbiamo partecipato alla realizzazione. Pensavamo che qualcuno lo potesse deturpare, alla fine è diventato un simbolo del quartiere», spiega Nastassja Habdank, detta Nasti, 23 anni, già presidentessa della Commissione Pari Opportunità e Politiche Giovanili del Municipio III. In linea con il risultato del Comune, che ha registrato la vittoria del centrosinistra e l’elezione di Roberto Gualtieri a sindaco, anche nel municipio hanno vinto le stesse forze politiche, in continuità con la precedente giunta. E il nuovo presidente, Paolo Marchionne, di recente ha sottoscritto proprio davanti al murale il patto contro l’omotransfobia proposto dall’associazione Gay Center.

LA STORIA È SCRITTA SUI MURI

Resistenza antifascista, rispetto della diversità, uguaglianza. La storia e l’identità del Tufello, periferia nord ovest di Roma, si respirano sui muri. Dal ritratto di Valerio Verbano, militante di sinistra ucciso nel 1980 nella casa dei genitori da un gruppo armato fascista, a “Ladri di biciclette” di Vittorio de Sica. Dai tanti dipinti in ricordo di Gigi Proietti, che da qui si è ispirato per il suo accento, ai disegni di solidarietà nei confronti dei migranti morti in mare, realizzati dagli studenti del liceo artistico Sarandì in collaborazione con la Cgil. In un altro liceo, l’Aristofane, oltre “Le rane” e “Le nuvole”, titolo delle due commedie più famose del commediografo greco, dipinte da Krayon con lo stesso stile del “Bacio”, i ritratti di Peppino Impastato e di partigiani morti durante Resistenza adornano l’immenso giardino. «È tutta opera dei ragazzi», spiega Rita Ventura, professoressa di inglese dell’istituto. «Dopo il Covid-19 è un po’ diverso, non c’è lo stesso impegno, ma la curiosità e la voglia di conoscere le storia dei personaggi raffigurati è rimasta la stessa».

 

Storia e identità che a loro volta ispirano. In un circolo virtuoso con i residenti, che nell’arte sui muri identificano un motivo di appartenenza a una comunità. «Un ragazzino ci ha sgridato: “Ahò, ma che state pulendo?”. Gli abbiamo detto che stavamo preparando un altro murale e si è tranquillizzato», racconta Matteo Pietrosante, 25 anni, presidente nella scorsa giunta della Commissione mobilità e lavori pubblici. L’idea di Nasti e Pietrosante è quella di rendere il Tufello un museo a cielo aperto, in cui tutti abbiano un ruolo e a tutti vengano date le stesse opportunità. 

 

 

L’ALTRA FACCIA DEL QUARTIERE

Davanti alla stazione della metro, inaugurata solo nel 2015 e pressoché unico collegamento con il centro della Capitale, una bambina gioca in una pozzanghera con un nastro arancione. È l’altra faccia del quartiere. Che da una parte lo rende «oggetto di critiche foriere di pregiudizi e di una concezione fuorviante del cosiddetto degrado, dall’altra è il risultato dell’abbandono delle periferie», commenta Claudio Cippitelli, sociologo e presidente dell’associazione Parsec. Quello che manca, spiega, è una visione del quartiere che non sia né quella di un’occasione di un investimento “food and beverage”, né di parcheggio per le famiglie disagiate, funzione originaria delle borgate di epoca mussoliniana.
«Sono nata qui, ora vivo con mia figlia e i suoi bambini, la casa di prima l’ho dovuta prestare a mio fratello», racconta Mara De Preta, mentre passeggia a braccetto con la sorella nel cortile del “Condominio Stalingrado”, costruito nel 1939 e casa per circa 3mila persone. «Sono molto affezionata, ma qui dentro è uno schifo, i ragazzi spacciano e devo fare attenzione a girare coi nipoti. Negli anni non è cambiato molto».


Qualche metro più avanti, sul marciapiede c’è un tavolino con quattro sedie bianche e una tenda. Un ragazzo alto, treccine nere, in compagnia del cane, dà il buongiorno a tutti. Poi si affaccia, chiede se può avere qualcosa per colazione e gli vengono regalati un tramezzino, una bottiglietta d’acqua e un succo di frutta. Ringrazia e se ne va via trafelato.


«Dove vai oh, mi raccomando, ti aspetto stasera per una chiacchera eh, daje!». Antonio Leo, voce calda e sigaretta sempre in mano, fa parte da 30 anni del centro diurno di Parsec, attivo dal 1995. La struttura offre servizio di accoglienza e sostegno a persone con problematiche di tossicodipendenza - in forte calo negli ultimi vent’anni ma in crescita sul breve periodo - e ogni mese fornisce più di 200 pranzi, 3.265 siringhe, di cui 1730 gli vengono restituite, e 20 fiale di Naloxone contro l’intossicazione da oppioidi.


«La vedi questa persona?», chiede Leo con lo sguardo rivolto a un ragazzo in sella a una bicicletta elettrica. «È stato in carcere sette anni, si faceva cinque volte a settimana. Adesso lavora in parrocchia, è diventata una risorsa: dà una mano, può raccontare ai ragazzi la sua esperienza. Vederlo girare con quella bici comprata con i suoi risparmi è una vittoria». Durante il lockdown i ragazzi del centro hanno fornito sostegno a distanza e medicinali per evitare i rischi di overdose, hanno risollevato ragazzi nelle case popolari che non avevano né luce né gas, e alle finestre semplici cartoni.

 

ARTE E ANIMA POPOLARE

“La rivincita sarà la risata dei nostri bambini”, è la scritta che campeggia sul frontone della Palestra popolare Valerio Verbano. Un metro più sotto, il murale raffigurante un sorridente Bobby Sands, attivista nordirlandese morto in carcere, che spezza le catene attorno al collo. L’opera, come si nota dalle caratteristiche linee rosse di ispirazione tribale sul volto, è stata realizzata da Jorit, artista di fama internazionale e autore di murales ritrattistici in tutto il mondo, dalla Palestina alla Tanzania. Nasce dal suo pennello anche la gigantografia di Verbano, realizzata in occasione dei 40 anni dalla sua morte a pochi passi dalla palestra.


«Quando organizziamo manifestazioni in suo ricordo accorrono migliaia di persone, anche da fuori dal quartiere», racconta Giulio Bonistalli, istruttore di kick boxing e attivo nel centro sociale Astra. Nel 2005 occuparono un locale caldaie abbandonato, divenuto nel frattempo ritrovo per tossicodipendenti, trasformandolo in una delle palestre più importanti di Roma. Poster, stendardi, gagliardetti, regali provenienti da altre palestre popolari sparse in Europa e i ritratti di Verbano e altri ragazzi scomparsi arredano i muri della sala. Dalle colonne penzolano i sacchi da box, il pavimento è ricoperto di tappeti rossi, verdi e blu. Qui oggi si allenano più di 200 ragazzi. Molti di loro hanno vinto titoli nazionali, e alcuni istruttori sono entrati anche nelle federazioni sportive. «Abbiamo mantenuto la promessa fatta a Carla (madre di Valerio Verbano, ndr): ci siamo messi in regola, riconosciuti dalle istituzioni, senza però mettere nel cassetto i nostri ideali», dice Bonistalli.


La palestra non offre solo corsi sportivi. «Al ragazzo che spacciava o faceva il palo qua dietro offriamo un’alternativa che altrimenti non avrebbe. Non sarà mai un problema se la famiglia non ha abbastanza soldi a fine mese». Insieme a molte altre realtà del quartiere, dall’associazione culturale De Frag, che organizza corsi di chitarra, canto, pianoforte, laboratori di sartoria e fotografia, a Lab Puzzle, spazio occupato, esempio di “welfare dal basso” e da poco riconosciuto “Bene comune” dal municipio, la palestra popolare copre il vuoto lasciato dalle istituzioni. Lo copre con lo sport, la cultura, la storia, l’arte. Lo copre colorando i muri e le giornate dei residenti del Tufello.