Non sono patologie incurabili, ma lo diventano perché spesso la rete di assistenza è inesistente. Nel nostro Paese le strutture sono un centinaio, ma non bastano e con la pandemia il fenomeno è aumentato in modo esponenziale (foto di Francesco Cilli)

Ti guardi allo specchio e vorresti essere diversa, diverso. Non ti piaci: le tue gambe, la tua pancia, il tuo viso. Senti delle voci. Conti le calorie, razioni il cibo, smetti di mangiare. Non riesci a fermarti: i tuoi pensieri sono intrappolati. In Italia le persone che soffrono di disturbi alimentari sono tre milioni. Di anoressia, di bulimia e di “binge eating disorder” (alimentazione incontrollata) si muore. Non sono patologie incurabili, ma lo diventano perché spesso la rete di assistenza è inesistente.

 

In tutto il Paese un centinaio di strutture si occupano di seguire, a diversi livelli, pazienti affetti da disturbi del comportamento alimentare (Dca): i casi più lievi sono gestiti negli ambulatori, quelli più complessi nei centri diurni o residenziali, quando si è intervenuti troppo tardi si ricorre al presidio ospedaliero.

 

 

Per garantire un soccorso adeguato, in ogni regione dovrebbe essere presente ognuna di queste realtà. Nei territori più abitati, dovrebbero essere anche più di una. Non è così: in Puglia, ad esempio, mancano centri predisposti al ricovero ospedaliero e alla riabilitazione residenziale; in Calabria c’è solo un ambulatorio.

«Si possono verificare diverse situazioni. Nella maggior parte dei casi, nelle Asl non c’è nessuna competenza: le ragazze e i ragazzi non riescono a ricevere assistenza. In altri casi invece, quando esistono centri organizzati e ben specializzati, le strutture sono stracolme e le risorse insufficienti», spiega Leonardo Mendolicchio, direttore scientifico dello “Specchio”, l’unica struttura residenziale per la cura dei disturbi alimentari esistente in Sardegna.

 

Si trova a Iglesias, a 59 chilometri da Cagliari: il percorso riabilitativo è a carico del Servizio sanitario nazionale ed è personalizzato in base alle esigenze del paziente. «Ci occupiamo della riabilitazione nutrizionale, psicologica e della rieducazione del corpo e del movimento attraverso un équipe di fisioterapisti». È un livello di cura intermedio, i pazienti sono seguiti costantemente. Alcuni ospiti arrivano qui dopo un ricovero ospedaliero. Per poter accedere c’è una lista di attesa di quattro mesi. «Servirebbe il 30 per cento in più del personale per poterla smaltire», osserva Mendolicchio.

 

 

Le strutture come “Lo Specchio” sono una rarità, le famiglie chiamano da tutta Italia per poterci entrare. Chi riesce a ottenere un posto spesso decide di trasferirsi: si considera fortunato, perché ha trovato un luogo dove poter curare suo figlio o sua figlia.

 

L’assistenza è a macchia di leopardo, ma il disagio è diffuso ovunque. E continua a crescere. Per Mendolicchio «siamo di fronte a un’emergenza epocale, dentro la pandemia c’è un’altra epidemia». Nell’ultimo periodo i casi si sono moltiplicati: il ministero della Salute ha registrato un aumento del 30 per cento. Nel primo semestre del 2020 sono stati rilevati 230.458 nuovi pazienti, nello stesso periodo dell’anno precedente erano stati 163.547. Sulla salute mentale dei ragazzi e delle ragazze hanno pesato l’isolamento e la chiusura delle scuole. Nel 2021 le chiamate al numero verde nazionale della Presidenza del Consiglio, che fornisce indicazioni sui servizi di riferimento, sono triplicate rispetto al 2020. L’età dei primi sintomi si è abbassata. L’osservatorio dell’Asl di Roma 1 segnala un aumento del 231,7 per cento delle richieste di presa in carico nella fascia di età tra i 12 e i 18 anni. Ci si ammala quando si è più piccoli e si arriva nei centri di assistenza in una fase già critica. «I casi sono più complessi. Noi abbiamo aumentato del 60 per cento le sacche nutrizionali (quelle che garantiscono l’alimentazione per via endovenosa, ndr)», racconta Michele Severini, psichiatra e referente del tavolo tecnico con l’azienda sanitaria Ospedali Riuniti Salesi di Ancona. Nelle Marche ci sono tre strutture che si occupano di Dca.

 

Un’assistenza frammentata e poco sviluppata comporta una guarigione più difficile. Secondo, l’Organizzazione mondiale della sanità i disturbi del comportamento alimentare rappresentano la seconda causa di morte nella popolazione femminile in adolescenza, dopo gli incidenti stradali. Nel 2016 le vittime sono state 3.360: dieci al giorno. Come ha spiegato in una relazione al Senato Giuseppe Ruocco, direttore generale della Direzione igiene e sicurezza degli alimenti del Ministero della Salute, i numeri sono sottostimati perché «i decessi si presentano spesso sotto altra specie, per lo più arresti cardiaci». Molte morti potevano essere evitate. «I casi non nascono complicati, lo diventano con il passare dei mesi», sottolinea il dottor Mendolicchio.

 

 

Per chiedere al governo di intervenire e di lavorare sulla rete di assistenza, venerdì 8 ottobre diverse associazioni hanno manifestato di fronte alla sede del ministero della Salute. In piazza c’era anche Stefano Tavilla, presidente della onlus “Mi Nutro di Vita”: organizzazione nata nel 2011 per informare sui disturbi del comportamento alimentare. Stefano ha creato “Mi Nutro di Vita” dopo la scomparsa di sua figlia Giulia, morta poco prima di essere ricoverata in un centro specializzato.

 

Giulia soffriva di bulimia, aveva 17 anni. «Sono anni che io cerco di muovere qualcosa. Siamo stati alla Camera, al Senato. E i risultati quali sono? Mia figlia è mancata a causa dalla mala sanità: sono passati dieci anni, ma succedono sempre le stesse cose». Stefano parla con convinzione. Nella sua voce non c’è alcun segno di rassegnazione, crede ancora che qualcosa possa essere migliorato e cambiato.

Grazie al lavoro di “Mi Nutro di Vita” e di altre associazioni il governo ha istituito la Giornata nazionale del fiocchetto lilla per sensibilizzare la società sui disturbi alimentari: dal 2018 viene celebrata ogni anno il 15 marzo. In piazza l’8 ottobre c’erano più di 300 persone. Associazioni, genitori e pazienti si sono uniti in un’unica organizzazione, dando vita alla rete “Movimento Lilla”.

 

Una delle richieste presentate al ministero della Salute riguarda la classificazione dei disturbi alimentari all’interno dei Lea (i livelli essenziali di assistenza che i cittadini hanno diritto a ottenere dal Servizio sanitario nazionale): fino a oggi i Dca sono stati inseriti sotto la categoria delle fragilità psichiatriche.

 

Secondo Stefano dovrebbero essere considerati come una malattia a sé stante, in quanto patologie multidisciplinari. Questo permetterebbe di stanziare risorse dedicate. «Noi vogliamo che ci sia un budget destinato unicamente ai Dca e che il governo controlli come vengono spesi al livello regionale i finanziamenti, perché la cura deve essere accessibile a tutti». Anche secondo Stefano stiamo parlando di un’epidemia. Un’epidemia silenziosa che non può più essere sottovalutata. Al termine della manifestazione alcuni membri delle associazioni hanno incontrato il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, che ha promesso di ampliare la spesa per la cura dei Dca e ha proposto di coinvolgere l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) nel monitoraggio delle possibilità di assistenza offerte.

Trovare maggiori risorse è fondamentale. Per curare i disturbi alimentari bisogna raccogliere diverse professionalità. «Ma oggi creare delle équipe, composte da operatori dotati di specifica formazione e predisporre tutti i livelli di intervento, risulta spesso molto difficile», racconta Caterina Renna, responsabile del Centro per la cura e la ricerca sui disturbi del comportamento alimentare dell’Asl di Lecce.

 

Qui nei primi sei mesi del 2021 le richieste sono raddoppiate rispetto all’anno precedente. I casi più gravi riguardano ragazzi e ragazze tra i 10 e i 15 anni. «Più del 50 per cento dei pazienti fa ricorso ad autolesionismo, presenta umore depresso, disforia, ansia, aggressività e irritabilità». Secondo Renna questi comportamenti derivano anche da un utilizzo eccessivo e incontrollato dei social network: «Si sono diffuse tra i giovanissimi convinzioni erronee sul cibo e sull’alimentazione, sono stati introiettati modelli di bellezza irrealistici a cui si pensa sia necessario adeguarsi, pena l’esclusione, la derisione e il body shaming».

 

Molto dipende da come vengono utilizzati i social e dai contenuti che sono diffusi. Sono strumenti, e quindi non necessariamente nocivi. In piazza l’8 ottobre c’era anche Alba. Durante il suo percorso di riabilitazione e di cura ha aperto un canale Youtube e ha iniziato a raccontare la sua storia. «Volevo essere d’aiuto a chi stava affrontando le mie stesse difficoltà», dice.

 

Alba sui social è spontanea e chiara. Ride, piange, si arrabbia. Spiega cosa vuol dire soffrire di Dca e quali sono i primi campanelli d’allarme. Ripete che soffrire di anoressia o bulimia non significa semplicemente «essere troppo magri». Il disturbo può esserci, anche se non si vede. Nei suoi video dà dei consigli su come imparare ad affrontare quotidianamente le situazioni in cui chi è in difficoltà con il proprio corpo non si sente a suo agio: mettersi in costume, andare a mangiare fuori con gli amici.

 

 

Per guarire serve tempo, bisogna imparare a riconoscere le proprie fragilità e ad accettarle. Alba prima di essere ricoverata al centro di Empoli, era andata da uno psichiatria non specializzato che le era stato indicato dal medico di base: in quei mesi aveva continuato a perdere peso, le era stato diagnosticato un disturbo ossessivo compulsivo. È stata la madre a trovare la struttura di Empoli e a chiedere un colloquio.

 

Alba ora ha iniziato un corso di laurea magistrale in Criminalità, sicurezza e investigazione internazionale a Roma, in uno dei suoi ultimi post su Instagram racconta della manifestazione davanti al ministero della Salute. In mano ha un cartello con scritto: «Non sono i Dca a causare 4mila morti ogni anno. È lo Stato a negarci le cure».