Edifici lungo i litorali, canali tombati, fiumi irregimentati: in Italia si è considerato l’ambiente uno spazio da occupare e ogni secondo si perdono due metri quadrati di terreno naturale

I danni dell'alluvione a Bitti, in Sardegna
La sequenza sembra inarrestabile: il 21 novembre, piogge alluvionali hanno inondato Crotone e diversi altri comuni della costa ionica calabrese. Una settimana dopo, la cittadina di Bitti, in provincia di Nuoro, è stata sepolta da una colata di fango e acqua che ha anche provocato tre vittime. Il 6 dicembre, in Emilia-Romagna, le precipitazioni eccezionali hanno causato l’esondazione del Panaro, con conseguente evacuazione di decine di famiglie nel Modenese. Se il nostro territorio è storicamente flagellato da alluvioni e disastri, la frequenza con cui si stanno verificando li rende ormai non più fenomeni straordinari ma frutto di un nuovo ordinario con cui saremo sempre più costretti a fare i conti.

Per una singolare coincidenza il 5 dicembre, poco prima che esondasse il Panaro, si è celebrata la giornata mondiale del suolo. Istituita su sollecitazione della Fao, la ricorrenza mira a sensibilizzare governi e opinione pubblica sull’importanza di mantenere sani gli ecosistemi e preservare la salute del suolo. Il nostro Paese purtroppo ha con il suolo un rapporto non proprio armonioso: ogni anno, i ricercatori dell’Ispra pubblicano un rapporto dai risultati preoccupanti. In Italia, si consumano due metri quadrati di terreno naturale al secondo: nel solo 2019, 57 milioni di metri quadrati sono andati perduti. Numeri che appaiono ancora più eloquenti se affiancati a quelli sulla scomparsa di superfici agricole: secondo Coldiretti, negli ultimi 25 anni cementificazione e abbandono hanno cancellato più di un quarto delle terre coltivabili in Italia.

La questione climatica e quella del consumo di suolo appaiono strettamente correlate: più il suolo viene maltrattato e consumato, più devastanti sono gli effetti dei fenomeni meteorologici estremi. Non sarà un caso che il comune di Corigliano Rossano, che ha il primato di consumo di suolo in Calabria (15 ettari impermeabilizzati nel 2019 sui 118 complessivi nella regione), è stato uno dei più colpiti dall’alluvione di novembre. Negli ultimi 50 anni, non si è avuta grande cura per il territorio: si è cementificato, costruito, asfaltato, senza interrogarsi davvero sulle conseguenze che questo comportava. Si è edificato lungo i litorali, si sono tombati canali, si sono irregimentati fiumi. Si è considerato insomma l’ambiente naturale uno spazio da occupare e non una ricchezza da conservare.

«Il suolo è purtroppo una risorsa che non è mai stata considerata tale», sottolinea Paolo Pileri, professore di Urbanistica al Politecnico di Milano. Autore di diversi libri sulle criticità dell’attuale modello di sviluppo (l’ultimo, “Progettare la lentezza”, è appena uscito per People), il docente suggerisce un cambio di prospettiva che passa per un cambio di semantica: «Invece di parlare di bombe d’acqua, bisognerebbe parlare di bombe di cemento. Perché le scelte urbanistiche non sono mai neutrali. Edificare in modo dissennato in una certa area vuole dire renderla più esposta alle conseguenze dei cambiamenti climatici».

La frequenza dei fenomeni alluvionali rende attualissimo un tale mutamento di prospettiva. Invece, ogni tentativo di frenare il consumo di suolo sembra destinato ad arenarsi: diverse leggi sono state presentate e sono morte in Parlamento, l’ultima nel marzo 2018. E così l’iniziativa è lasciata alle Regioni, che non sempre hanno la sensibilità adeguata. Un esempio: in Sardegna, mentre Bitti veniva travolta da un mare di fango, la giunta ha proposto un piano casa che consentirebbe incrementi volumetrici fino al 50 per cento anche per gli edifici costruiti nella fascia protetta di 300 metri dalla battigia. Nuove bombe di cemento, foriere di nuove tragedie. Intanto, nel tempo che avete impiegato a leggere questo articolo, sono andati persi altri 400 metri quadrati di suolo.